La marcia della pace non porta la pace nel mondo
02 Settembre 2011
Se fossimo in un mondo utopico le belle parole del coordinatore del “Tavolo della pace” Flavio Lotti metterebbero tutti d’accordo e nessuno avrebbe alcunché da obiettare nella condanna della guerra.
Porre però il problema in termini di spesa, invocando un’ulteriore diminuzione delle spese militari e un non meglio specificato ripensamento delle missioni militari all’estero, come dichiarato ieri da Lotti, mi pare a dir poco semplicistico se non demagogico.
Chiedere ulteriori tagli al settore della difesa in questo momento storico rischierebbe di compromettere la piena operatività e la sicurezza dei nostri reparti all’estero e paralizzare in tutto o in parte l’efficienza e l’addestramento degli uomini e dei mezzi. Il settore della difesa italiano, colpito costantemente dalla scure di quasi tutti i governi dal 1988 ad oggi, impegna appena l’1,7 del nostro PIL, dato questo che se rapportato alla Francia (2,4 del PIL), al Regno Unito (2,7 del PIL), gli Stati Uniti (4,7 del PIL) e Israele con il 6,9 del PIL (dati relativi al 2009 e decisamente in calo soprattutto in Italia) pone il nostro sistema di difesa ai limiti storici e a rischio di funzionamento.
Se poi entriamo nel merito delle singole missioni, a cominciare dall’Afghanistan e da quella che fu Iraq Freedom, operazione quest’ultima che sta dando esiti indubbiamente positivi come le libere elezioni e la costituzione di un governatorato curdo, non possiamo non constatare quale impatto positivo abbiano avuto i nostri militari nei due citati e differenti contesti operativi. Mi risulta difficile, oltreché utopistico, ricostruire villaggi devastati dalla guerriglia lanciando anatemi contro le spese militari o magari chiedendo ritiri unilaterali che insultano la memoria e il sacrificio di tanti nostri ragazzi.
Se tante organizzazioni umanitarie hanno potuto e possono operare in teatri operativi devastati come l’Afghanistan e se qualche risultato in termini di ricostruzione sino ad oggi lo si è raggiunto lo si deve ai tanti che hanno rischiato la propria pelle a contatto con la popolazione civile minacciata costantemente dai signori della guerra che ancora oggi operano nell’Afghanistan. Tagliare ancora i fondi del settore della difesa, che è imprescindibilmente legato alla politica estera degli Stati e del nostro Stato, significherebbe lasciare campo aperto al mondo della violenza e della sopraffazione facendo tramontare qualsiasi scenario di stabilizzazione, ricostruzione e pace.