I fondi europei ci sono, ma il Sud deve imparare a saperli spendere

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I fondi europei ci sono, ma il Sud deve imparare a saperli spendere

07 Settembre 2011

Che la politica di coesione europea fosse un’importante fonte di finanziamento per i programmi delle regioni europee l’hanno capito sin da subito tutti gli Stati membri aderenti all’Unione, fatta eccezione per l’Italia. E’ dal lontano 1986, quando con l’Art. 158 dell’Atto Unico europeo si gettarono le fondamenta giuridiche della politica regionale comunitaria, finalizzata alla riduzione del “divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni”, che i Paesi membri utilizzano gli strumenti finanziari ad essi destinati per rinnovare la propria competitività, aumentare il potenziale di crescita e produttività e rafforzare la coesione sociale. Venticinque lunghi anni in cui il nostro paese ha dimostrato, ancora una volta, di non saper approfittare delle opportunità, in questo caso economiche, provenienti dall’Europa, che avrebbero potuto contribuire ad attenuare il differenziale di crescita delle regioni italiane. Un immobilismo tutto nostrano, che si traduce in un mare di risorse buttate al vento e che, in un momento di austerity e di profondi tagli alla spesa pubblica, potrebbero rappresentare le uniche risorse certe nelle casse delle regioni per la definizione di strategie capaci di incidere significativamente sullo sviluppo del territorio.  

I dati più allarmanti riguardano il Sud, dove i pagamenti relativi ai 43,6 miliardi dell’attuale periodo di programmazione 2007-2013 (tra fondi UE e cofinanziamento nazionale) si fermano al 9,6% e gli impegni al 18,8%. I dati variano molto in base al programma, ma sulla spesa spiccano in negativo il 2,4% della Campania e il 3,7% della Sicilia. Tutte risorse che, se non utilizzate entro il 31 dicembre prossimo, rischiano di andare perdute. Se, infatti, gli impegni assunti non si tradurranno in pagamenti (o in domande di pagamento ammissibili) la Commissione europea procederà ad un automatico disimpegno con conseguente perdita definitiva di risorse fondamentali per la realizzazione dei singoli programmi regionali.

A fine luglio il commissario UE per le Politiche regionali, Johannes Hahn, ha inviato lettere di sollecito a Calabria, Sicilia, Sardegna, Campania e Puglia per lo “scarso rendimento” con cui utilizzano le risorse messe a disposizione da Bruxelles. Un paradosso se pensiamo che sono tutte regioni ad Obiettivo Convergenza, vale a dire il cui PIL è inferiore al 75% della media comunitaria e, pertanto, risultano bisognose di aiuto. Ma, ancor peggio, le missive del commissario sono una chiaro riconoscimento del fallimento delle amministrazioni pubbliche regionali.

Questi allarmanti dati confermano, dunque, che il raggiungimento di un giusto equilibrio tra un utilizzo rigoroso delle risorse a disposizione (considerando i costi amministrativi ad esse associati) e l’efficienza dei programmi sembra essere  un vero e proprio miraggio, in particolar modo per le regioni del Mezzogiorno d’Italia. I motivi vanno analizzati nel dettaglio. Innanzitutto, vi è una mancanza di qualità dei progetti che si traduce nell’ incapacità, da parte di talune regioni italiane, di realizzare un piano strategico concreto, che possa trovare un’applicazione pratica e non solo teorica. Il Ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, ha più volte sottolineato la necessità di evitare di parcellizzare le risorse a disposizione in piccoli progetti che spesso non hanno futuro, operando una scelta oculata delle priorità strategiche e ottimizzando le risorse su grandi progetti. Detto tra le righe (e forse neanche tanto): bisogna imparare a spendere al fine di conseguire risultati misurabili.

La razionalizzazione della spesa, poi, dovrebbe andare di pari passo con una valutazione preventiva dei progetti che necessitano del finanziamento comunitario. Era il 2006 quando, con il Regolamento 1083/2006 per l’attuale periodo di programmazione, la Commissione europea imponeva un’adeguata analisi ex-ante delle iniziative programmate ed ex-post di quelle già realizzate, che avrebbe consentito di migliorare, qualora fosse stato necessario, alcune fasi cruciali dell’azione di policy, evitando ad esempio gli sprechi, garantendo una maggiore trasparenza ed efficienza amministrativa, nonché un’equa allocazione delle risorse finanziarie. Ma le regioni oggetto delle critiche dell’esecutivo europeo, a quanto pare, hanno adottato un altro sistema, alternativo a quello richiesto dalla Commissione: meglio non spendere piuttosto che concentrarsi su robuste e qualificate attività di valutazione.

Ma più di tutto, l’amministrazione dei fondi strutturali, soprattutto nel Mezzogiorno, soffre di un difetto grave: la mancata applicazione del principio di sussidiarietà. La gestione degli strumenti finanziari della politica di coesione deve essere affidata alle autorità il più vicino possibile ai cittadini, sfruttando il vantaggio di un maggiore e migliore coordinamento tra le parti coinvolte, assicurando una governance cosiddetta "multilivello". E’ importante ampliare le modalità e i meccanismi di condivisione centro-periferica, che permettono l’attuazione delle iniziative ad un piano più vicino al territorio. In questo modo, le autorità locali e cittadine vengono anch’esse coinvolte nel processo di policy making europeo e garantiscono una maggiore realizzabilità dei programmi regionali. Ma, anche per ciò che concerne questo punto, l’esempio delle regioni del Sud è  estremamente negativo: il principio è stato finora poco seguito, ovvero è stato praticato in maniera burocratica con i partner sociali ed istituzionali spesso consultati solo formalmente durante il processo di decision-making.

Basterebbero poche, intelligenti, iniziative per ottimizzare la spesa delle risorse comunitarie, grazie alle quali sarebbe possibile ottemperare agli oneri imposti dalla Commissione, rispettarne i vincoli e sfruttare le enormi opportunità derivanti da un disciplinato utilizzo dei fondi europei. A dirla così, sembrerebbe facile. Eppure, mentre altri paesi di recente adesione stanno già raccogliendo i frutti derivanti dei fondi messi a disposizione dell’Unione europea, l’Italia si fa ancora domande sulle “strategie di definizione”.