C’è un Occidente che tollera tutto, ieri Mubarak oggi Qaradawi
02 Gennaio 2012
Per decenni le potenze occidentali hanno sopportato e foraggiato i regimi autoritari, le autocrazie e le dittature del mondo arabo, un esempio per tutti i generosi finanziamenti elargiti al master of terror Yasser Arafat in nome del quieto vivere, di una malintesa idea della stabilità e del business a tutti costi, con l’illusione di contenere la valanga islamista che montava sotto la povertà e l’ignoranza di quei popoli tenuti alla catena. Così come i Nixon e i Kissinger avevano legittimato il confronto con l’impero totalitario sovietico, in nome della détente e del contenimento, le cancellerie internazionali hanno tollerato i warmongers del mondo islamico, tacciando di avventurismo neocoloniale e, sotto sotto, di fascismo, quei presidenti americani e i leader europei che si battevano in nome dell’universalismo democratico, per rovesciare il comunismo piuttosto che il baathismo, la Jamaria o l’Emirato del terrore talebano. Reagan, Bush, Blair ma anche il fu Havel.
La stessa tentazione serpeggia oggi in Occidente nei confronti dei nuovi governi che s’insediano nei Paesi sconvolti dalla primavera araba: siamo pronti a trovare un compromesso con i notabili locali, con un potere militare sempre disposto a rubare la scena alla politica, ma soprattutto con quei partiti espressione del revival islamico: nel secondo round delle elezioni parlamentari egiziane la Fratellanza Musulmana ("Libertà e Giustizia") ha preso quasi la metà dei voti, ma il vero successo è stato quello dei salafiti, cresciuti sopra ogni aspettativa. Questa competizione intra-islamica a chi è "il vero musulmano" non potrà che arrecare danni all’Egitto del dopo Mubarak. Ed ecco i profeti di sventura che si aggirano nei centri studi e nei palazzi della politica di casa nostra annunciare la prematura gelata di quelle inattese ed insperate primavere. Se i laici in Egitto hanno preso meno del dieci per cento dei voti, si chiedono sardonici, come faranno a costruire una democrazia che somigli anche vagamente a quelle degli Stati liberali?
I partiti islamici hanno riscosso grande successo anche in Tunisia, a un anno dal rogo del giovane lavoratore che si sacrificò in un gesto che non aveva nulla di religioso ma esprimeva solo il bisogno (ferocemente negato) di libertà e di maggiori opportunità economiche. In Siria gli islamici, i laici, i socialisti e i comunisti, i disertori dell’esercito, la scorsa settimana hanno sottoscritto un accordo per opporsi al regime degli Assad che sta sprofondando nel sangue e nelle violenza. Forse il medico-killer cadrà com’è toccato a Gheddafi, quasi sicuramente il futuro del Paese vedrà un ritorno in scena della Fratellanza locale, che già al momento è la forza prevalente se non nelle piazze nelle moschee e nelle case di molti siriani. Tra qualche mese rimpiangeremo un’altro "intervento umanitario" come quello libico, capace soltanto di generare caos, o un’altra piazza Tahrir, non meno dolorosa di quella egiziana.
La vera disgrazia di quest’epoca è che l’America ha un presidente convinto che ritirarsi e tendere l’amo del soft power siano la strada giusta per chiudere la questione islamica. Tanto rapida è stata la legittimazione degli interlocutori islamici che Obama ha chiesto allo sceicco Qaradawi, proprio lui, il reazionario padrino della Fratellanza, di farsi ambasciatore presso i Talebani nella segreta guerra diplomatica in corso in Afghanistan (fonte il giornale Hindu), mentre i generali egiziani ordinavano incursioni poliziesche nelle sedi delle Ong americane e occidentali.
Vero è che i caucus dello Iowa preoccupano Obama più delle manifestazioni nelle città siriane, dove da nove mesi si spara sulla folla, con i cecchini del regime appollaiati sui tetti a falcidiare civili; mentre va in scena la tragicommedia sul rispetto dei diritti umani orchestrata dalla Lega Araba e si scopre che uno dei rappresentanti venuti a Damasco per proteggere la popolazione è un generale sudanese passato alla storia come l’inventore delle milizie islamiste che hanno sconvolto il Darfur. L’America si sta facendo prendere in giro e non regisce, ipocritamente o per zelante indifferenza, alla vandea che sta risucchiano l’anelito democratico dei popoli arabi, ma le elezioni si avvicinano e con esse il timore, per Obama, che l’elettorato americano consideri i risultati del Discorso del Cairo fallimentari: un tradimento delle aspettative generate dal risveglio del mondo giovanile e internettiano nei Paesi musulmani, un chiudere la porta in faccia ai dissidenti che sono stanchi di vivere nella paura, certemente una minoranza ma che non è detto in futuro non riesca a prevalere, magari stabilendo relazioni convenienti e pacifiche con Israele. Certo non avverrà in quest’ultimo scorcio della presidenza democratica. (Fine della prima puntata. Continua…)