L’asse russo-cinese a favore della Siria ha ragioni strategiche ma non solo
18 Febbraio 2012
Il blocco diplomatico russo- cinese si è di nuovo manifestato l’altroieri alle Nazioni Unite con il voto contrario in Assemblea Generale su una risoluzione sulla Siria che chiedeva le dimissioni del presidente Bashar al-Assad e forniva sostegno al piano della Lega Araba per portare il paese alla pacificazione e a nuove elezioni. Come lo scorso 4 febbraio in Consiglio di Sicurezza, Cina e Russia si sono mosse di concerto portandosi dietro altri 10 voti contrari, tra cui ovviamente quello della delegazione Iraniana e gli immancabili Corea del Nord, Cuba e Venezuela. La risoluzione, non vincolante, è stata comunque approvata con 137 voti a favore.
La comunità internazione e in particolare gli Stati Uniti fanno fatica a comprendere l’ostinazione e, per certi, versi la cecità con cui Russia e Cina continuano a sostenere il regime alawita mentre questo fa strage di civili a migliaia e sembra ormai avere i mesi se non le settimane contate. Riesce difficile infatti spiegare la decisione di Mosca e Pechino di sfidare il resto del mondo in una partita che a molti appare ormai persa e così facendo condannarsi a un isolamento internazionale che i numeri del voto di ieri mettevano in bella mostra.
Eppure sono molti i motivi che legano Russia e Cina in questa apparentemente insensata e autolesionista difesa del regime siriano. E non è un caso se nel Consiglio di Sicurezza entrambi i paesi abbiano posto il loro veto, quando ne sarebbe bastato uno solo: il veto all’Onu è sempre da intendersi come un segnale di sfida aperta contro gli Stati Uniti che ne sono i principali azionisti e per questo i paesi che ne detengono il diritto lo utilizzano con molta prudenza. Il 4 febbraio, Russia e Cina hanno lanciato una doppia sfida all’America.
Oggi la Siria è il campo di battaglia principale dove si gioca la scalata iraniana al rango di potenza regionale. Assad e il suo regime sono il perno di questa strategia attorno alla quale ruotano attori minori, come il Libano, la maggioranza sciita in Iraq, gli Hezbollah e Hamas. Per motivi diversi ma convergenti Russia e Cina hanno tutto l’interesse che questo progetto di supremazia iraniana non venga interrotto o ribaltato e tenga occupate quante più possibili risorse strategiche, economiche e militari americane.
Pechino ha bisogno di intralciare l’attivismo americano nel sud-est asiatico che mira a contenere la Cina in una rete di contro-alleanze; mentre Mosca non si può permettere di perdere i suoi tradizionali alleati in Medio Oriente. La Siria in particolare ospita l’unica base navale russa nel Mediterraneo a Tartous, divenuta indispensabile dopo la chiusura post-sovietica delle basi di Alessandria e Mersa Matruh in Egitto. Tartous è la vera spina nel fianco delle strategie navali americane nel Golfo e la Russia sta investendo milioni di dollari per ampliare il porto e metterlo in grado di ospitare, a fine 2012, anche navi portaerei.
Non è sfuggito alle intelligence occidentali il fatto che la portaerei russa Admiral Kuznetsov abbia attraccato per tre giorni davanti al porto di Tartous proprio a fine gennaio. E’ vero che il sostegno incondizionato ad al- Assad potrebbe mettere al rischio la concessione della base – il trattato tra l’Urss e il padre dell’attuale presidente siriano risale al 1971 – nel caso si arrivasse ad un cambio di regime e la nuova leadership siriana avesse le mani libere per premiare gli amici e punire i nemici. Ma è esattamente il “regime change” che Russia e Cina non vogliono ostinatamente e con tutti i mezzi mettere nel conto.
Il precedente libico è ancora troppo attuale: gli effetti della risoluzione del Consiglio di Sicurezza – passata con l’astensione russa e cinese – che diede il via libera all’intervento “umanitario” della Nato e che ha invece portato alla caduta e alla morte di Gheddafi, hanno messo in grandissimo allarme Pechino e Mosca. Il timore russo-cinese è che si possa affermare un principio di diritto internazionale secondo cui diventi possibile intervenire contro stati sovrani quando esista anche solo la previsione di crimini contro la popolazione civile. In questo c’è anche evidentemente una sorta di sindrome da immedesimazione, in cui due paesi non democratici e potenzialmente esposti a forti contestazioni interne si sentono chiamati in causa – seppure in una prospettiva futura – da un simile principio. Soprattutto se loro stessi lo avessero avallato in passato.
C’è poi la sensazione, in particolare riguardo alla posizione russa, che si riterrebbe più condizionabile dal consenso internazionale, che le questioni strategiche da sole, seppure importanti, non spieghino tutto. Nel cercare di comprendere i motivi profondi delle scelte del Cremlino occorre sempre un po’ mobilitare anche le risorse della psicanalisi, semmai questa possa applicarsi agli Stati. E per la Russia questo accade con una certa frequenza. E’ infatti abbastanza evidente che la dimensione politica di un leader come Vladimir Putin è ancora molto legata alla temperie della guerra fredda.
La Russia putiniana, nonostante i complessi arabeschi tracciati dai cremlinologi di professione, è ancora vittima di un banale riflesso condizionato antiamericano che la porta a ritenere dannoso per i propri interessi qualsiasi cosa appaia vantaggioso per gli Usa. La Russia post-sovietica era un gigante tornato bambino che ora attraversa tutti i tumulti della crescita. Mosca si offende, mette il broncio, reagisce stizzita, si isola e poi gode e soffre del suo isolamento. Ovviamente non tutto si spiega con la psicologia dell’età evolutiva, e le ragioni che abbiamo elencato sopra restano tutte buone spiegazioni per la presa di posizione russa.
Resta il fatto che Mosca aveva un scelta: poteva cogliere l’occasione siriana per salvaguardare i suoi interessi nell’area, offrirsi come honest borker di un compromesso nazionale che salvasse Damasco da una guerra civile e allo stesso tempo schierarsi con il mondo occidentale guadagnando credito come potenza globale affidabile ed equilibrata. Se ha preferito l’altra strada, quella dell’asse con la Cina e dell’isolamento internazionale e del braccio di ferro con gli Usa, alle molte buone ragioni strtegiche occorre aggiungere forse un tratto di regressione infantile.