“La partitocrazia non crollò solo per colpa dei giudici”
19 Febbraio 2012
Gaetano Quagliariello docente di Storia e vicepresidente dei senatori Pdl, nel 1992 non era iscritto a nessun partito. Prima di allora, un passato nei Radicali terminato nel 1982. Osservò quindi la stagione di Tangentopoli come qualsiasi altro italiano, capendo però che era il momento di schierarsi. Così nel 1994 scelse Forza Italia.
Senatore Quagliariello, cosa rimane di Tangentopoli a distanza di vent’anni?
Penso sinceramente che l’importanza storica di Tangentopoli sia stata sopravvalutata. In realtà vera struttura del sistema della Prima Repubblica era costituita dalla guerra fredda che consentiva a un sistema non più rispondente alle esigenze politiche, economiche e sociali di restare in piedi. I cosiddetti partiti di integrazione sociale, che inglobavano l’individuo in una sorta di contro-società, hanno rappresentato la forma di partitocrazia organizzata più sofisticata che ci sia stata in Europa. Nel resto del continente essi iniziarono a declinare già negli anni ’50. In Italia, invece, proprio negli anni ’70 attraverso l’istituzionalizzazione del metodo consociativo, i partiti di integrazione sociale avevano vissuto la loro stagione d’oro dal punto di vista sistemico allargando la loro influenza sulla società piuttosto che limitarla. L’Italia andava quindi in controtendenza. Che cosa è accaduto? L’allargamento dell’influenza ha raggiunto dimensioni tali che alla fine i partiti non hanno più controllato il processo, finendo così per essere colonizzati al loro interno da piccole o grandi lobby e da potentati. Questa dinamica ha riguardato tutti i grandi partiti tranne il Pci, dove il vecchio centralismo democratico ha retto abbastanza bene. Quando il fattore “K” – così lo ha definito Ronchey riferendosi all’equilibrio causato dalla guerra fredda – è venuto meno, il sistema non ha retto perché non aveva più basi. Tangentopoli è stata l’occasione, non la causa scatenante. E andrebbe inoltre vista in una dimensione comparativa europea: il rapporto tra politica e corruzione dopo la fine della guerra fredda era infatti cambiato ed alcune pratiche fino ad allora tollerate perché assorbite da uno scontro maggiore, da quel momento in poi non sono state più consentite. Quelle che in Germania, con lo scandalo che riguardò Kholl, in Spagna con Gonzales, e in Francia furono scosse di assestamento del sistema, in Italia furono invece l’occasione per il crollo generale perché evidentemente, le basi del sistema non c’erano più.
Fu una rivoluzione culturale o un golpe giudiziario?
Dire che fu una rivoluzione è ridicolo, perché la vera rivoluzione fu quella del 1989. Solo che in Italia il Pci, che nel frattempo aveva cambiato nome, cercò di egemonizzare perfino il suo fallimento storico. Quanto all’ipotesi che si sia trattato di un golpe giudiziario, è evidente che il finanziamento della politica era in gran parte illecito: sotto quest’aspetto vale quanto disse Craxi in Parlamento, cioè che il fenomeno riguardava tutti i partiti; ed è altrettanto evidente che fosse necessario voltare pagina. Una forzatura giudiziaria cercava di utilizzare questa situazione per determinare un esito paradossale: dopo aver eliminato con un’amnistia il problema dei finanziamenti esteri, si voleva trasformare la fine dell’equilibrio bipolare e la fine del comunismo nell’occasione per dare vita a un’egemonia definitiva della sinistra sul sistema della politica italiana. Gli sconfitti della storia, con l’utilizzo strumentale di Tangentopoli, volevano diventare vincitori. Si è tentato un ribaltone storico.
Ha mai creduto a una regia occulta?
No. Non ho mai nemmeno creduto al complotto.
E’ indubbio comunque che senza Tangentopoli forse non sarebbe mai iniziata l’era berlusconiana…
Tangentopoli creò un vuoto che poteva anche rimanere vuoto e riempirsi solo in maniera frammentata, e invece ha consentito a quella che a lungo era stata una storia minore dell’Italia fatta di anticomunismo esistenziale e psicologico, silentemente maggioritaria, compressa dall’ufficialità dei partiti della prima repubblica, di emergere, di manifestarsi come un fiume carsico che rivede la luce.
Lei come ha vissuto il 1992. Era pro o contro i giudici?
Ricordo liti politiche che non ho più fatto, è stato un momento di grandi passioni: era il momento di schierarsi. La lettura che do oggi di quei fatti è la stessa che davo già nel 1992. Le racconto un piccolo episodio: quando scese in campo Berlusconi dissi pubblicamente che avrei votato Forza Italia. Ero un ricercatore della Facoltà di Lettere de L’Aquila e un collega più grande che mi voleva bene mi consigliò la visita da uno psicanalista perché riteneva che votare Forza Italia fosse un atto eversivo, una follia. Almeno in termini di carriera…
Il caso Lusi dimostra che la politica non è stata capace di porre rimedi al problema della corruzione?
Durante la prima repubblica la corruzione era un problema sistemico, riguardava l’essenza stessa del sistema. Oggi certamente la corruzione esiste e in alcuni casi è molto grave ma non si può dire che quello di Lusi sia un fenomeno strutturale. Certo, si dovrebbe fare di più. Noi abbiamo perso l’occasione di cambiare la natura giuridica dei partiti: che ancora oggi siano delle associazioni private lo ritengo un residuo paretiano di sovversivismo antistatale.
Se Berlusconi non si fosse dimesso crede che avremmo potuto assistere a una nuova Tangentopoli?
Penso che la via giudiziaria alla rivoluzione in Italia non sia morta, semmai si è affinata. Il problema è che il rapporto patologico tra politica e giustizia, originatosi allora anche per alcuni cambiamenti costituzionali che non conobbero contrappesi, è ancora il problema principale del sistema politico italiano. Chiunque sarà il prossimo presidente del Consiglio eletto, se non si fa una riforma della giustizia, avrà gli stessi problemi che hanno avuto i governi Prodi e Berlusconi, perché non possiamo dimenticarci che nel 2008 abbiamo vinto perché un pm di provincia arrestò la moglie del Guardasigilli…