Serve una leadership forte per affrontare la crisi e non grigi tecnocrati
10 Novembre 2011
Nella scelta tra nominare un nuovo Governo tecnico e scegliere la via elettorale vi sono, in entrambi i casi, pro e contro. La scelta delle elezioni rischierebbe di creare ancora più tensione sui mercati finanziari, che vedrebbero nella rinuncia a creare un nuovo esecutivo una incapacità sistemica del popolo italiano di trovare una soluzione alla crisi attuale.
Da qui, il rischio di un ulteriore impennata degli spread, con effetti drammatici sul costo futuro d’emissione di titoli di debito pubblico. Quella delle elezioni sarebbe, tuttavia, la scelta più democratica, poiché, dal momento che gli italiani hanno scelto, alle passate elezioni, di essere governati dal centro-destra guidato dalla figura di Silvio Berlusconi, è giusto che non si trovino un premier che mai avrebbero votato.
I governi tecnici sono una forzatura della democrazia, in quanto scelti dai politici e non dagli elettori. Viene quindi meno il principio di rappresentatività, poiché solo l’elettorato, e non una ristretta enclave di politici, è deputato a scegliere da chi essere governato.
Un conto era la prassi seguita nella Prima Repubblica, dove gli elettori accettavano di votare il partito, delegando poi ad esso la scelta dei componenti del Governo, un altro quella seguita nella Seconda, dove l’elettorato vota una coalizione e il nome di un candidato premier. Se qualcosa è cambiato, nelle scelte dell’elettorato, è giusto che venga espresso nel voto elettorale.
Secondariamente, in Italia abbiamo assistito numerose volte al revival dei "governi tecnici", da sempre giustificati dalla necessità di far governare a degli "esperti" delle situazioni d’emergenza. Data la periodicità con la quale questi governi vengono invocati, ci sarebbe quindi da credere che l’Italia viva in un perenne stato d’emergenza. Il governo tecnico, però, in uno stato democratico, non dovrebbe esistere, perché un conto è fare (appunto) il tecnico, un altro fare il politico.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri non è soltanto un ingegnere finanziario o un esperto di infrastrutture. E’ una persona, auspicabilmente da anni presente nella politica nazionale, che presiede e coordina le attività degli altri Ministri, che ne dirime gli (inevitabili) conflitti, che rappresenta il Paese all’estero, che alza la voce quando va difeso, che ha un preciso indirizzo di politica economica.
Un tecnico super partes è l’esatta negazione di tutto questo. Non può esporsi, deve limitare a svolgere il compito affidato, deve stare attento a non andare né contro la maggioranza, né contro la minoranza, proprio perché sostenuto da entrambi. Insomma, la miglior situazione per non ledere nessun potere forte.
Mettiamo caso, per un momento, che il professor Monti, figura di indubbia caratura tecnica, venisse nominato premier e che decidesse di attuare le politiche virtuose di cui l’Italia ha bisogno, ad esempio la riforma del mercato del lavoro. C’è qualcuno che può davvero credere che i sindacati accettino passivamente questa riforma? Che le lobby e le parti sociali diventino, da un momento all’altro, disposte ad accettare tutto quanto non hanno finora mai accettato solo perché il Governo è presieduto da un "tecnico"?
Oppure, mettiamola al contrario: come reagirebbe un premier à la Monti davanti all’opposizione del paese reale a inevitabili manovre draconiane? E’ evidente che, in queste situazioni, solo un politico carismatico, con un progetto politico sostenuto, in primis, dalla propria coalizione e, secondariamente, dal proprio elettorato potrebbe avere la spinta per rendere le proprie idee efficaci.
In attesa delle riforme costituzionali, che auspicabilmente possano portare l’Italia al presidenzialismo, è bene ricordare come i governi tecnici passati non abbiano raggiunto quasi mai i risultati sperati. Sarebbe quindi opportuno che, anziché avere pallidi tecnici, si scelga un leader carismatico e deciso, capace di portare finalmente a termine il percorso di riforme in senso liberale.