Tim Scott, il primo nero applaudito per rappresentare anche i bianchi del Sud

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Tim Scott, il primo nero applaudito per rappresentare anche i bianchi del Sud

19 Gennaio 2012

Tim Scott è nero come il carbone. Più di Barack Obama. A buon diritto, Scott è un afro-americano, vale a dire un (lontano) discendente degli ex schiavi, come invece non è lo è il mezzo-nero Obama.

Timothy E. Scott è deputato alla Camera federale di Washington in rappresentanza dello Stato del South Carolina, dove il 21 gennaio si svolgeranno le elezioni primarie Repubblicane. Oltre che nero più della pece è un conservatore tetragono. A Washington è arrivato come beniamino dei “Tea Party” (gli stessi che hanno portato in palma di mano Nikki Haley, la mezza-indiana dell’India eletta governatrice del South Carolina). Prima ha stravinto la nomination di partito con numeri “bulgari”, poi, il 2 novembre 2010, ha trionfato alle elezioni di “medio termine” che hanno segnato il grande successo dei “Tea Party”.

Tim Scott è il primo nero eletto al Congresso federale di Washington dallo Stato del South Carolina dai tempi della Ricostruzione (1865-1877), cioè l’epoca di “conquista nordista” del Sud sconfitto seguita alla Guerra di secessione (1861-1865). L’aspra, asperrima lotta tra i candidati in corsa per la nomination Repubblicana nelle primarie di quest’anno non lo spaventa affatto. Anzi, dice che la disfida è il sale della democrazia.

A differenza della governatrice Haley, con cui fa da sempre coppia fissa nell’ideario conservatore dei “Tea Party” del South Carolina, non si sbilancia a favore di alcun candidato in lizza. Se infatti la Haley ha già dato il proprio pesante appoggio a Mitt Romney, Scott si astiene. Preferisce aspettare. Dice che, comunque vada, i colpi anche bassi che i candidati si scambiano oggi sono un’ottima palestra. Alla fine ne resterà uno solo, e quell’uno sarà forte, fortissimo, addestrato come un marine dalle lunghe battaglie combattute nelle primarie. Ha ragione. Negli Stati Uniti è sempre stato così e sempre così sarà.

Ma fra le pieghe del ragionamento di Scott s’intravvede anche un’altra verità.

Romney vola nei sondaggi e conquista uno Stato dopo l’altro perché è il candidato “più eleggibile”. Vero o no il giudizio, così di lui si dice; e, continuando a ripeterlo, l’elettorato Repubblicano finisce che ci crede, o che comunque si comporta di conseguenza. Così stanno del resto cominciando a fare anche i conservatori, in specie i “Tea Party”, i quali si per sé in Romney non hanno il proprio candidato ideale, ma che scelgono (spesso, non sempre) di far di necessità virtù onde cercare, per mezzo suo, alla fine di battere Obama. Solo che così rischiano.

Da sempre il movimento conservatore statunitense ha votato i Repubblicani sub condicione: ha cioè costantemente scelto, quando e se possibile, di optare per i candidati più a destra di quel partito. Quando non li ha trovati, non ha certamente votato quelli più liberal e nemmeno gli avversari Democratici. Questo il movimento conservatore lo ha del resto sempre fatto nel chiaro intento di portare a casa quanti più risultati fosse possibile nell’immediato, mettendosi in attesa di tempi migliori e di personale politico più confacente. Tra pragmatismo e idealismo, è insomma stato l’artefice vero delle vittorie come anche delle sconfitte del Partito Repubblicano per più di mezzo secolo.

La vittoria dei “Tea Party” alle elezioni di “medio termine” del 2010, e il conseguente spostamento a destra del GOP su vasta scala, ha però fatto pensare a molti che il momento buono per calare l’asso di bastoni fosse finalmente giunto. Ovvero che l’idealismo potesse dare una volta per tutte l’addio al pragmatismo. Ma poi è sopraggiunta come un orco la paura di un secondo mandato Obama e il molto si è sgonfiato. Epperò se non ora, quando? Quando i conservatori potranno politicamente sperare in qualcosa di più della sola realpolitik?

Mentre sullo sfondo rimane sempre la grande verità della politica della non-Sinistra statunitense – il GOP senza i conservatori perde, ma i conservatori da soli non riescono a costruire un’alternativa vincente sul GOP -, personaggi cristallini, amati e credibili come Tim Scott sollevano con eleganza il problema. Scott non sceglie alcun candidato oggi in lizza sperando così di non doversi accontentare solo di praticare una volta in più del pur efficace pragmatismo. Se non sarà l’unico a farlo, se ne potrebbero – non si sa se già nel 2012, ma poco importa – delle belle.

Intanto, giusto per non farsi mancare nulla, il nero Scott discendente degli schiavi, primo afro-americano a venire calorosamente inviato a Washington come rappresentante anche dei bianchi del profondo Sud che già fu della Confederazione secessionista, rompe gli indugi e dice che le accuse di razzismo rivolte a certe uscite dei Repubblicani oggi in corsa per la nomination sono solo pretestuosa tattica ideologica degli avversari. Un bel tipo, Tim Scott.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.