Ecco perchè il ricorso ai ‘tecnici’ rischia di riportare in sella il nazionalismo
17 Novembre 2011
La tecnocrazia è formalmente salita in plancia in Grecia e Italia. Due eurocrati alla guida: l’ex vice presidente della Bce Lucas Papademos ad Atene e l’ex-commissario alla concorrenza della commissione europea Mario Monti a Roma. Ecco servita all’Europa del Sud due gentiluomini che dovranno insegnare le buone maniere ai rispettivi popoli e partiti.
Ciò accade mentre il direttorio Merkozy si ingegna sul metodo più efficace di far pagare il conto all’Europa del Sud – Italia in testa – per l’indigestione quasi fatale di titoli greci in decomposizione nelle pance delle banche franco-tedesche. Rimane insoluta una questione che presto troverà risposta: chi trarrà beneficio da questo conflitto tra Nord e Sud europeo? Quali forze politiche raccoglieranno i dividenti elettorali di questo dramma? E rovesciato: chi ne pagherà il conto?
Sarà la sinistra continentale, istituzionalizzata, socialista, a prendere il sopravvento alle prossime elezioni nei vari Stati dell’Unione Europea dopo più di un decennio ‘conservatore’? Oppure c’è da aspettarsi di tutto – e tutt’altro – con i partiti di estrema, vecchi e nuovi, a interpretare la parte del leone? A guardare quello che accade con gli Occupy – indignati attorno alla cattedrale di St. Paul a Londra o allo Zuccotti Park di New York si direbbe che l’estrema sinistra abbia già il voto del dissenso in tasca.
Un fenomeno che dice quanto la sinistra continentale europea rischi nella crisi economico-sociale che impone governi tecnici. I partiti tradizionali, quelli parlamentarizzati – in Italia costretti dal Quirinale a sostenere Mario Monti – rischiano di pagare un prezzo alto dal sostegno alla misure draconiane della tecnocrazia. E’ assodato storicamente che la guida tecnocratica dia una bella mano ai partiti di estrema, amplificandone la capacità attrattiva sugli elettori (non è un caso che la Lega abbia deciso di andare all’opposizione).
Si applichi questa ‘regola’ a un sistema partitico e istituzionale in crisi di rappresentatività e d’efficienza come quello italiano – in un recente sondaggio Gallup, un istituto di sondaggi americano di sinistra, due terzi degli italiani si dichiarano insoddisfatti della classe politica italiana – e si capirà subito come il rischio che le estreme italiane, Idv e Sel a sinistra e la Lega a destra, guadagnino grosso dal teatrino del ‘governo tecnico’ del prof. Monti è molto alto.
Un’ascesa quella delle estreme, in particolare nazionaliste, che nel resto d’Europa è già una realtà. Un fenomeno che è certo conseguenza del fallimento istituzionale del progetto comunitario di cui l’attuale crisi europea del debito è assieme causa prima e una delle manifestazioni.
In Europa occidentale il ritorno del nazionalismo anti-comunitario, anti – Bruxelles, non è cosa nuova. In Francia alle prossime elezioni presidenziali il presidente Nicolas Sarkozy – l’ambizioso post-gollista che è riuscito a imbonire una Casa Bianca con scarso interesse per l’Europa così lasciando il continente in mano alle sue scorribande – dovrà temere molto di più lo charme un po’ androgeno di Marine Le Pen, figlia prediletta del Front National, alla destra dell’Ump, che quello asfittico del suo avversario socialista del Psf, il ‘dinosauro’ François Hollande.
In Olanda il partito libertario anti-islam e anti-comunitario di Geert Wilders, il Pvv, è secondo nei sondaggi nazionali. In Austria la Fpö, Freiheitliche Partei Österreichs, il partito delle libertà austriaco di Heinz-Christian Strache, è anch’esso secondo nei sondaggi nazionali. Nelle Fiandre belghe, la destra del Vlaams Belang cresce. In Svizzera il Schweizerische Volkspartei cresce in misura considerevole da anni. Stesso fenomeno nei paesi del Nord Europa. Danimarca, Svezia e Finlandia conoscono l’affermazione elettorale di movimenti di questo genere. Anche l’Europa dell’Est è lambita da simili fenomeni politici: basti citare i casi d’Ungheria o Bulgaria.
Il ritorno al nazionalismo di parte dell’elettorato europeo non può, e non deve, solo essere liquidato però con la riduttiva spiegazione legata all’inceppamento del progetto europeo. Ha a che fare anche con il mito infranto del processo di globalizzazione, con i flussi migratori, con la desertificazione industriale, con la fine delle certezze identitarie religiose, con l’aumento significativo della presenza musulmana nelle città e nella campagne europee. E’ l’arroccamento di chi non crede più nel progresso, di chi non ne è più sedotto, di chi ha smesso di professare la ‘religione’ europeista venduta negli anni come panacea di tutti i mali.
In Italia questi fenomeni, che da tempo rimpinzano la pancia elettorale di partiti come la Lega Nord e della destra invidiosa dell’Italia dei Valori che si posiziona a sinistra (buona la prima Facci), si incroceranno ora con il governo tecnico di Mario Monti, con l’esautoramento delle istituzioni rappresentative nazionali, con il commissariamento dell’Italia politica, con la trasformazione di un sistema istituzionale italiano da repubblica parlamentare a regime presidenziale de facto senza alcun passaggio di revisione costituzionale o di legittimazione popolare. Ma soprattutto si intersecheranno con la fine di un fenomeno politico di innegabile importanza: Silvio Berlusconi.
Il declino del berlusconismo come massima epifania del rifiuto esasperato di quello che Giuseppe De Rita ha definito recentemente sulla Stampa la fine del "soggettivismo etico” – inteso quest’ultimo come rifiuto dell’obbedienza intesa come virtù, del divorzio e dell’aborto, dell’assunzione del proprio desiderio individuale a chiave di volta del vivere umano – è un buona lente attraverso la quale leggere l’attuale crisi politica italiana (rotta dalle licenze illegalmente riportate dell’erotismo berlusconiano) e il possibile ricorso dei nostri partiti dentro e fuori dal parlamento al mito nazionale.
L’indigestione di ‘soggettivismo etico’ che Berlusconi ha prodotto politicamente nell’elettorato italiano, rischia di creare ampio spazio politico per qualunque partito o leader politico voglia offrire una retorica del ritorno al passato e all’ordine, del rifiuto dell’Europa, del rifiuto della globalizzazione e dell’immigrazione, in particolare di un rifiuto morale e politico alla cultura del libertinaggio che si è fatta beffe del principio liberale di libertà intesa come dovere, in favore di una misura più collettiva del vivere in comunità.
Un mantra, quello della comunità immaginata, facilmente raccoglibile da chiunque cavalchi la più potente delle immagini politiche che l’Europa abbia mai prodotto: la nazione. Sia chiaro allora che l’imposizione di governi tecnici in Europa, oltre a svuotare di significato le istituzioni democratiche e il principio di responsabilità politica, rischia di portare in dote anche l’anima più oscura della politica europea: il nazionalismo.