‘Pecunia non olet’ ovvero tutti gli affari della Corea del Sud con l’Iran

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‘Pecunia non olet’ ovvero tutti gli affari della Corea del Sud con l’Iran

21 Gennaio 2012

E’ un dilemma che le democrazie occidentali conoscono bene, e che nel passato le ha portate a compromessi rivelatisi poi errori madornali. Fare affari o combattere i nemici? Pensare a risolvere una crisi economica o rischiare di renderla peggiore con scontri diplomatici e militari? Assecondare chi vuole distruggerci o riconoscere che a volte la guerra é necessaria?

Il paragone tra Hitler ed Ahmadinejad viene solitamente rifiutato dai politici isolazionisti americani e deriso dai pacifisti europei. Ma la Storia dimostra come sia facile, quasi tragicamente banale, scatenare un conflitto di dimensioni mondiali. Il presidente iraniano, che ha negato ripetutamente l’Olocausto e ha espresso il desiderio di spazzare Israele dalla carta geografica, non é un buffone, ed é pericoloso sottovalutarlo.

Se guardiamo al di là delle sue parole, vediamo concretissime azioni di destabilizzazione del Medio Oriente: supporto finanziario ad organizzazioni terroristiche internazionali, montagne di missili spedite da Teheran ai miliziani di Hezbollah, armi ed addestramento per i jihadisti in Iraq. Per non parlare del programma atomico (né del recente complotto per assassinare l’ambasciatore saudita negli USA e far saltare in aria le ambasciate israeliane a Washington e Buenos Aires).

Insomma, il regime iraniano fa sul serio, e la Primavera Araba, che mentre Obama era distratto a fare discorsi narcisisti si é trasformata in un Inverno Islamo-fascista, gioca a suo favore. Perché é questo che Ahmadinejad vuole: confusione in Medio Oriente, ed islamisti tipo i Fratelli Musulmani pronti a salire al potere. Perché? Per pure ragioni ideologiche legate al ritorno del Dodicesimo Imam, dicono esponenti della destra americana da Glenn Beck a Rick Santorum.

Questo può essere vero; anche le 72 vergini che attendono i jihadisti in paradiso suonano come un’idea bizzarra alle nostre orecchie, eppure chi ha dirottato gli aerei l’11 settembre ci credeva sul serio. Tuttavia, bisogna aggiungere ragioni più imminenti e strettamente economiche: le sanzioni a cui l’Occidente continua a far ricorso funzionano solo se l’Iran é isolato. 

Ma con Obama in fuga dall’Iraq, e con il governo di Baghdad che a mala pena controlla le aree più centrali del paese, una frontiera di 1500 kilometri si é magicamente aperta di fronte ad Ahmadinejad. Seguendo la stessa strategia, l’Iran punta ad approfittare di confusione, guerre civili ed instabilità nella regione per aggirare le sanzioni, circondarsi di alleati, e portare avanti il progetto nucleare.

L’Occidente, di fronte a questo scenario, risponde a parole e proclami, ma non con i fatti. Tra poche settimane, entrerà in vigore il National Defense Authorization Act, firmato da Obama il 31 dicembre scorso; la legge prevede sanzioni economiche unilaterali verso aziende e banche che intrattengono relazioni commerciali con l’Iran. Ma la strada delle sanzioni é intricatissima, e l’esempio della Corea del Sud é illuminante. Certamente, il governo di Seoul sarebbe felice di ricambiare a Washington i molti favori ricevuti, ed in particolare il costante supporto diplomatico e militare.

Tuttavia, gli affari sono affari, e i sudcoreani di affari con Teheran ne fanno parecchi. In particolare, sono più di 2000 le aziende coreane che esportano prodotti in Iran; Samsung ed LG Electronics hanno negli ultimi anni rafforzato il loro dominio nel mercato iraniano grazie alla volontaria ritirata dei concorrenti europei ed americani. Inoltre, la Corea del Sud importa enormi quantità di petrolio dall’Iran, ed un brusco stop di questo traffico causerebbe innalzamento dei prezzi del carburante e peggioramento della crisi economica nel paese asiatico.

In conseguenza di tutto ciò, negli ultimi giorni il primo ministro sudcoreano Kim Hwang-sik ha visitato gli Emirati Arabi e l’Oman, nel tentativo di programmare un incremento di importazioni di petrolio da questi paesi. Allo stesso tempo, i diplomatici di Seoul stanno cercando di convincere l’inviato americano Robert Einhorn a concedere del tempo: con una riduzione graduale del petrolio importato dall’Iran l’economia sudcoreana non dovrebbe affrontare un’impennata dei prezzi dei carburanti.

L’esempio della Corea del Sud mostra chiaramente che una strategia soft come quella delle sanzioni internazionali é di complicatissima applicazione, perché richiede coordinazione diplomatica e ferrea volontà da parte dell’Occideente di mettere da parte interessi economici particolari in un momento di crisi. Ahmadinejad, per ora, sta vincendo.