Abu Mazen è andato all’Onu non per vincere la partita, ma per perderla
23 Settembre 2011
Roma. La strategia di Abu Mazen alle Nazioni Unite appare sempre più indecifrabile. Oggi il leader palestinese parlerà all’Assemblea generale dell’Onu. A seguirlo, a distanza di ore, sarà di contrappasso il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Tra i due sarà un duello diplomatico per conquistare i cuori e le menti degli altri 191 rappresentanti, tutti in attesa di capire come si districherà la prossima fase del conflitto tra Israele e Palestina, perché a oggi anche la tanto declamata vittoria di Abu Mazen rimane incerta. Secondo Noah Feldman, docente di legge internazionale a Harvard, non è neanche certo che il leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) punti a una vittoria. Anzi, suggerisce Feldman, a giovare di più alla causa palestinese sarebbe proprio la sconfitta.
Questa strategia del disfattismo, ammonisce il professore, nel brillante pezzo apparso su Bloomberg opinion mercoledì scorso, non deve essere vista soltanto come un semplice tentativo populista per indispettire gli Stati Uniti e costringerli a porre il veto in modo che Abu Mazen possa ripresentarsi a Ramallah come il leader che ha tentato ma ha fallito per colpa dei soliti cattivoni, Israele e Stati Uniti. Al contrario, nel disfattismo di Abu Mazen sono presenti elementi di una nuova strategia, prima assenti dai disegni diplomatici dell’Anp. Nel corso della loro storia politica, continua Feldman, i palestinesi non hanno ottenuto alcuna vittoria diplomatica significativa ed è sempre prevalso tra la leadership un esasperato vittimismo volto a mostrare la lotta palestinese tramite la banale ottica del “buono debole” oppresso dal “cattivo più forte”.
Abu Mazen vuole allontanarsi da questa narrativa e soprattutto, come dice all’Occidentale Nadim Shehadi analista di Chatham House, “la volontà del leader palestinese è di distanziarsi dall’eredità di Arafat”, la figura simbolo della lotta per l’indipendenza che grava pesantemente sulle spalle si Abbas, rampollo molto meno carismatico del maestro. Negli anni della sua leadership, Arafat ha introdotto nella cultura palestinese l’idea che la non violenza e il compromesso come posizione di debolezza. Per il topigno Abu Mazen dunque, crearsi un’identità politica diversa da quella del predecessore è sempre stato un problema fondamentale: ha cominciato dal non indossare mai un kefiah in pubblico (che Arafat invece portava sempre) e prediligere invece il vestito nero e anonimo della burocrazia internazionale e ora, secondo Feldman, sembra voler abbracciare la tattica della non violenza, in netta contrapposizione alle intifade promosse dall’ex maestro.
Non sarà un compito facile: Abu Mazen deve perseguire da un lato la sua nuova politica e dall’altro lato cercare di non scontentare la base. Così il leader dell’Anp ha scelto di fare la voce grossa nelle ultime settimane e di prendere a pesci in faccia l’Amministrazione americana rispondendo con secchi “no” a tutti i tentativi di mediazione. Poi, consapevole di non poter vincere, mercoledì sono arrivate le prime concessioni: “daremo un mese al Consiglio di sicurezza per discutere della nostra richiesta”, ha detto Abu Mazen mettendo le mani avanti. Così, da un lato è riuscito a mostrarsi come l’uomo forte che non si compromette con gli Stati Uniti e dall’altro come leader ragionevole che concede tempo al Consiglio si sicurezza per trovare la soluzione migliore alla richiesta palestinese.
Abu Mazen è stato anche aiutato nella sua strategia dagli eventi della primavera araba in Tunisia e in Egitto, dove le rivolte relativamente non violente hanno aperto gli occhi alla leadership di Ramallah (se Abu Mazen non si fosse mosso all’Onu probabilmente si sarebbe trovato le rivolte in casa) su possibile nuove strategie politiche. Gli esempi storici a sostegno della non violenza sono diversi: dal Sud Africa, all’India alla stessa America. Feltman conclude che “la non violenza ha una capacità molto maggiore di globalizzare il conflitto che la violenza. Basta pensare alla globalizzazione dei movimenti anti apartheid negli anni ’80. In questo contesto, il simbolismo – anche nella sconfitta al’Onu – possono diventare una fonte di forza”.
Non bisogna assolutamente vedere la strategia politica di Abu Mazen come quella di una sorta di Ghandi (anche se la mancanza di figure di questo genere nel contesto palestinese è sempre stata una domanda che gli analisti si sono chiesti) ma se nei Territori riuscisse a mantenere una pace (compito difficile viste le aspettative dei palestinesi) e all’Onu l’Anp si mostrarsi all’altezza dei giochi diplomatici, nelle future trattative il governo israeliano si confronterebbe con un attore più maturo e con strategie più temibili.