Il Pdl deve ritrovare la sua vera anima e porre fine all’oligarchismo
21 Novembre 2011
Nessuna forza politica sarà uguale a se stessa quando si esaurirà la stagione delle “larghe intese” parlamentari. Il Pdl soprattutto uscirà profondamente cambiato dall’appoggio – responsabile e opportuno – al governo Monti. Da qui alla fine della legislatura avrà modo – almeno così speriamo – di “resettarsi” e di intraprendere un cammino che con colpevole ritardo si rende conto di non aver percorso per tempo, pregiudicando le sue stesse fortune.
Ha la possibilità, insomma, di diventare un partito vero, con le strutture funzionanti e con le idee a posto, sempre che la sua classe dirigente abbia finalmente maturato la consapevolezza che senza l’elaborazione di un progetto organico e globale – nel senso che investa tutti gli aspetti della vita pubblica e s’interroghi su tutte le contraddizioni della modernità (comprese ovviamente quelle economico-finanziarie) – è destinato a vita effimera e sostanzialmente inutile.
Per dirla con estrema franchezza, non bastano i congressi che pure sono fondamentali. La politica che si chiede nasce da un’anima che non si costruisce in vitro. O la si cerca nelle motivazioni che rendono legittimo un movimento oppure, disgraziatamente, la si surroga con i lustrini e le paillettes di finte convention, finte assemblee, finte manifestazioni oceaniche. L’immaginario della gente non lo si galvanizza come abbiamo visto fare fin qui. Lo show politico è un espediente che copre il vuoto. In qualche momento è stato utile. Oggi sarebbe grottesco. E drammatico. Si ha bisogno di idee senza parole, più che di parole senza idee. La comunicazione è importantissima soltanto quando si ha qualcosa da dire. Ed il Maldestro ha il sospetto che da tempo il centrodestra si sia ammutolito proprio perché ha perduto quell’anima che avrebbe dovuto sostenerlo. Sarò un vecchio conservatore nostalgico ed anche un tantino brontolone, ma la politica-spettacolo a cui ha sacrificato se stesso quello che poteva essere un grande movimento di popolo, non mi ha mai convinto. E chi ritiene di riprendere oggi, nel tempo del cilicio culturale e mediatico, un qualche moto dell’antico spontaneismo per rilanciarlo come sostituto di un progetto, si sbaglia di grosso.
Mi permetto qualche critica piuttosto corrosiva per l’amore che porto ad una estesa comunità che vedo frastornata, non per la caduta di un governo, ma per un sogno che s’è infranto: ricostruire l’Italia, come auspicavamo in tanti all’alba degli anni Novanta, provenienti da lande diverse e lontane, accomunati dal miraggio di una stabile terra sulla quale avremmo potuto esercitare come cittadini il nostro buon diritto a fare della nazione una vera autentica riconoscibile patria. Patria tra le patrie e, dunque, parte di un’Europa meno mercantile e più umana. E’ sfumato tutto. Ammettiamolo senza falsificazioni di comodo.
Ma neppure la critica “esterna” può bastare, anzi è assolutamente insufficiente. E’ venuto il tempo dell’autocritica costruttiva, mentre purtroppo si continua con l’accidiosa rivendicazione, dimostrando, tra le file del centrodestra, che non si vuol prendere atto di ciò che è accaduto nel solo modo possibile: immaginando (e lavorando) per uno schieramento nuovo e non un nuovo schieramento, cioè abilmente rinnovato, imbellettato, agghindato.
Su questo si misurerà una classe dirigente avvedendosi che non c’è alternativa, a meno che non consideri tale sparire dallo scenario politico. Ed innanzitutto quel che si richiede è la fine dell’oligarchismo come forma di governo di un partito oggettivamente chiuso, refrattario al confronto, alla discussione, all’apertura a nuove istanze ed alla valorizzazione di più reattive energie e risorse. Se l’intelligenza politica operasse, credo che non sarebbe difficile ricucire tutte le componenti del centrodestra, mettendo da parte contrapposizioni vecchie e nuove, dando vita davvero ad una Costituente popolare nella quale ci sia spazio per tutti purché forniti di buone ragioni.
In un anno e mezzo è possibile farcela.