Il default della politica italiana esiste e non appare facilmente superabile
27 Novembre 2011
L’articolo di Roberto Pertici (Il problema del nostro Paese è che è la politica ad essere andata in default) pubblicato domenica scorsa, investe un argomento molto delicato e poco o punto dibattuto. Vale la pena, pertanto, di avviare una discussione che mi auguro possa trovare altri interlocutori. Il punto di partenza attuale dell’analisi di Pertici è innegabile: il fatto cioè che in meno di vent’anni la democrazia italiana sia stata "commissariata" due volte (governo Dini e governo Monti) facendo luogo ad esecutivi non legittimati dal voto popolare ma che si presentano come governi tecnici ovvero come governi del presidente. Senza indagare le ragioni contingenti dell’ultima crisi di governo, Pertici riporta questa ricorrente difficoltà ad uno scadimento nella qualità della classe politica, e indica come data nella quale si rivela per la prima volta un inaridimento dei canali di formazione del personale politico le elezioni del maggio 1968, che rendono precaria la maggioranza di centro sinistra. A partire da quel momento comincia la stagione del cosiddetto "consociativismo".
La diagnosi e la periodizzazione sono, in prima approssimazione corrette, ma richiedono alcune specificazioni. Anzitutto occorre ricordare, in maniera più netta di quanto faccia Pertici, che la difficoltà di reclutamento di un personale politico adeguato non è un fenomeno peculiare della nostra penisola. Per intenderlo sarà sufficiente un esempio. La politica non è più un’attività che sollecita le élite in tutti i paesi cosiddetti avanzati. Detto in altri termini, chi emerge in un determinato settore della vita sociale non pensa all’impegno pubblico come a un coronamento della propria esperienza. Al contrario in politica tende a impegnarsi chi trova in essa un canale per la propria ascesa sociale. Per capire quanto questo sia vero basta por mente al fatto che il presidente americano e quello francese sono entrambi figli di immigrati e che la cancelliera tedesca viene dalla Germania dell’est. Il fenomeno insomma non è solo italiano, solo che altrove sistemi politici più strutturati e assetti istituzionali più efficaci ed efficienti riescono a drenare energie fresche dalla società proiettandole nella vita pubblica. In Italia questo non accade o accade con molto maggiore difficoltà, perché il sistema politico che crolla dopo la fine della guerra fredda non ritrova fondamenta solide e soprattutto perché le istituzioni di fatto della prima repubblica continuano a regolare una condizione che richiederebbe regole condivise diverse.
Tali difficoltà ci riportano alle radici storiche del fenomeno. La fine degli anni sessanta del secolo scorso sono per l’Italia il momento in cui l’equilibrio del sistema arriva ad un punto di crisi. La modernizzazione che il paese ha conosciuto nel ventennio abbondante trascorso dalla fine della guerra non trova una canalizzazione politica. La ragione di fondo di tale difficoltà si può schematicamente riassumere nei termini seguenti: il maggior partito di opposizione, il Pci, è ritenuto poco affidabile dalla maggioranza degli elettori. Per far superare la diffidenza dell’elettorato occorreva accelerare e rendere esplicito il processo di revisione ideologica che il partito subiva in maniera inerziale dalla ultradecennale presenza all’interno delle istituzioni democratiche. Tuttavia, non solo tale accelerazione non avviene, ma il processo conosce un’involuzione (che si può sintetizzare nel passaggio della segreteria comunista da Longo a Berlinguer). Anche l’iniziativa che avrebbe potuto sollecitarlo dall’esterno, cioè l’unificazione socialista, fallisce nel giro di tre anni. Così si rafforza una spinta consociativa che immobilizza la vita politica italiana e allontana i partiti (di governo come di opposizione) dallo sviluppo sociale. Un decennio dopo, il fallimento dei governi di unità nazionale non modifica la situazione e il sistema arriva del tutto privo di legittimazione alla crisi finale. Il riassetto successivo sembra avere successo, ma è un riassetto del tutto imperfetto, empirico e incoato, come anche l’ultima crisi ha evidenziato. Indicare una soluzione (le riforme istituzionali) è facile, realizzarla appare oggi più difficile di quindici anni addietro.