La crisi, i valori non negoziabili, il bisogno di una nuova laicità
19 Aprile 2012
di redazione
La più grave crisi del dopoguerra ha investito l’Occidente. Minaccia l’equilibrio globale, determina ovunque incertezza e disorientamento nella risposta delle istituzioni sovranazionali e nazionali.
La politica ne risulta indebolita e delegittimata. Sembra non essere più in grado di garantire i bisogni consolidati delle società del benessere. Sembra aver smarrito ogni visione e che, per questo, non sappia più offrire una speranza per il futuro.
Ne consegue la tentazione di soluzioni affidate esclusivamente alla razionalità tecnica. E invece il fallimento dello scientismo ha reso evidenti tutti i rischi connessi alla trasformazione della scienza in ideologia; la sconfitta del secolarismo ha riaffermato la rilevanza pubblica delle religioni; le grandi immigrazioni hanno posto il tema delle contaminazioni tra le culture; la ragione essenziale e più profonda della crisi in atto è riconducibile all’inverno demografico dell’occidente e la sua causa prossima è consistita nella illusione, tutta tecnocratica, di sostituire la vitalità reale – garantita dal fecondo avvicendarsi delle generazioni – con quella virtuale delle attività finanziarie.
Insomma: se la radice della crisi è antropologica, la risposta non può essere meramente tecnica. Deve avere la forza di invertire il circolo vizioso del declino, muovendo da una visione positiva dell’uomo e della sua attitudine alla socialità. Perché solo una politica alta, in grado di guardare alle sfide del nostro tempo fondandosi su principi che si sono sedimentati attraverso la concreta esperienza degli uomini, può conferire nuovo slancio a società insicure e insidiate da processi di disgregazione, trasformandole in comunità vitali e solidali.
Oggi, i modelli di protezione e sicurezza sociale appaiono minacciati dalla crisi, al punto che la longevità – da sempre indicatore per eccellenza del benessere di una nazione – si è trasformata nella prima causa dello squilibrio, anche perché si coniuga con tassi di natalità troppo bassi.
Se la società che vogliamo è quella dei cosiddetti diritti «insaziabili», nella quale ogni desiderio individuale e ogni libertà personale si può proporre come diritto esigibile, in vista di un illusorio obiettivo di assoluta autodeterminazione, anche una nuova vita non sarà più vista come una ricchezza e un dono ma solo come la soddisfazione di un eventuale desiderio individuale. Si determina in tal modo una perdita secca di condivisione e solidarietà e si affievolisce l’apertura verso il futuro.
Per noi, dunque, per tutte queste ragioni, la questione antropologica non è teoria astratta ma la premessa di una politica pubblica per lo sviluppo integrale della specie umana. Essa è utile per governare, in funzione del bene comune, i grandi cambiamenti indotti dal salto tecnologico e scientifico, dalla globalizzazione, dalla fine del tempo del debito incontrollato.
Almeno a partire dal dibattito tra Habermas e Ratzinger è patrimonio comune della cultura politica europea – dei credenti e dei non credenti – che ogni società democratica abbia vitale bisogno di un perimetro valoriale “non negoziabile”, di un patrimonio irrinunciabile sulla base del quale edificare una nuova stagione di benessere ed equità.
Anche per questo, il tempo della crisi è più che mai quello della centralità della persona, della cura e delle relazioni. Vita, famiglia, libertà educativa ne costituiscono le premesse indispensabili.
La tutela della vita e della dignità di ciascuno, dal concepimento alla morte naturale, non è solo criterio fondamentale delle politiche sociali ma più generale premessa della stessa vitalità produttiva perché il senso del lavoro presuppone la diffusa consapevolezza del senso della vita. L’atteggiamento culturale di fronte al nascere, al morire e alle condizioni di fragilità (disabilità, vecchiaia, infanzia) è il paradigma di come ci si pone di fronte alla vita tutta, perché è il banco di prova della nostra concezione del rispetto per ogni essere umano.
La famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna – così come è disegnata dalla Costituzione – è innanzitutto certezza dei rapporti, aperti alla procreazione e all’accoglienza non solo dei nuovi nati, ma anche delle generazioni precedenti. Anche se oggi è in affanno, la famiglia italiana resta al centro della rete di relazioni, verticali e orizzontali, di solidarietà e cura.
E ancora la famiglia deve rimanere il soggetto di riferimento in tutti gli ambiti educativi, a partire da quello scolastico, nel quale va garantita la libertà di scelta. Oggi c’è una forte spinta verso la sostituzione della famiglia con gli “esperti” nel ruolo di agenti educativi. Ma se la sussidiarietà resta il criterio principale a cui ispirarsi, e se si vogliono affrontare le radici culturali dell’inverno demografico italiano, le competenze educative devono rimanere a servizio della famiglia, e non sostituirsi ad essa.
Il Popolo della Libertà, in quanto movimento che aspira a rappresentare il senso comune della nazione, non può che ancorare la propria proposta politica a quei principi non negoziabili che costituiscono il fondamentale elemento identificativo dell’ "eccezione italiana"nella stessa dimensione europea. E l’Europa, chiamata dalla crisi ad evolversi, ha bisogno di essi per superare gli evidenti limiti della sua costruzione. La prospettiva di una grande società attiva, insieme competitiva ed inclusiva, si realizza attraverso il conseguimento di più elevati livelli di rispetto della vita, di natalità, di apprendimento, di occupazione, possibili solo in un contesto di principi condivisi, accettati e praticati.
per il programma www.magna-carta.it