Il processo ai Khmer rossi, un evento epocale che i media ignorano

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Il processo ai Khmer rossi, un evento epocale che i media ignorano

10 Febbraio 2012

Sono passati trentatre anni da quando il 7 gennaio del 1979 il regime dei Khmer rossi di Saloth Sar, universalmente noto come Pol Pot, capitolava ad opera dell’esercito vietnamita. Al potere in Cambogia dal maggio del 1975, in quattro anni la dittatura Khmer, di stampo maoista-xenofobo, diede vita ad una delle pagine più allucinanti della storia dell’umanità. L’imperativo fu ricominciare tutto dall’anno zero attraverso l’annientamento totale di ogni forma di modernità, della società e dell’essere umano stesso.

La distruzione di automobili, elettrodomestici, macchinari, libri; l’abolizione delle scuole, della moneta, del commercio, degli affetti, furono solo il brevissimo preludio ai campi di lavoro forzato, alle torture, alle esecuzioni di massa, alle fosse comuni. Chiunque sapesse leggere o scrivere, parlasse lingue straniere, portasse gli occhiali, era considerato un nemico e quindi eliminato. Ben presto la maniacale visione dei Khmer portò a considerare chiunque un nemico. Il risultato fu la trasformazione del paese in un raccapricciante campo di sterminio a cielo aperto dove 2 milioni di persone, il 25% della popolazione, furono massacrate. I responsabili di questa barbarie, sono rimasti impuniti sino ad oggi.

Con un ritardo macroscopico, dovuto all’ostracismo del governo locale, gli esponenti di spicco del regime Khmer sono finalmente alla sbarra per rispondere di crimini contro l’umanità, di crimini di guerra e di genocidio. Arrestati solo nel 2007, a giudicarli sarà l’ECCC, tribunale istituito ad hoc nel 2003, composto in maggioranza da giudici nazionali ed in parte da giudici internazionali. Compaiono il numero due del regime, Nuon Chea, insieme all’ex Capo di Stato Khieu Samphan e all’ex Ministro degli Esteri, Ieng Sary. Eppure l’epilogo di questo dramma non sembra scontato e non perché manchi all’appello Pol Pot ideatore e deus ex machina dell’inferno cambogiano morto impunito nel 1998, ma perché il tribunale stesso sembra svuotato di potere.

Dopo 8 anni di lavoro ed un costo di milioni di euro un solo obiettivo raggiunto, la condanna di Kaing Guek Eav, alias compagno Duch, il macellaio di Phnom Penh, torturatore di professione, direttore del carcere Tuol Sleng, efficientissima macchina organizzata per sterminare esseri umani, 600 al giorno; i 35 anni comminatigli, addirittura ridotti a 19 a causa del periodo già scontato in carcere e per altre motivazioni tecniche, non sono un’assoluzione, ma 15mila ergastoli (tante furono le vittime del campo) avrebbero dato una parvenza di giustizia. Per gli altri imputati il processo è appena iniziato, ma non è un mistero che il tribunale sia accusato di subire pressioni politiche e ritardi. Troppi, perché gli imputati sono ormai tutti ultraottantenni e malati, o dichiaratisi tali.

E così la signora Ieng Thirith, all’epoca Ministro degli Affari Sociali, dichiarata affetta da morbo di Alzheimer, non verrà mai processata, ma prima di essere rilasciata ha augurato ai suoi accusatori di finire “maledetti nel settimo girone infernale”. Nuon Chea ha dichiarato che i Khmer “uccidevano soltanto i cattivi e non i buoni”, aggiungendo “non voglio che le nuove generazioni pensino che i Khmer fossero cattivi”. Per Khieu Samphan e Ieng Saryfu nessuna altisonante dichiarazione, non c’è n’era bisogno, per loro parlano i fatti. 

A leggere i capi di imputazione dei tre principali gerarchi del regime, i 15.000 ergastoli auspicati per Duch, quantomeno reo confesso, sono pochi. Considerati da Pol Pot i “fratelli”, proprio in quel paese dove i legami e gli affetti parentali furono criminalizzati per prevenire ogni forma di corruzione borghese, il loro delirio era trasformare la Cambogia in un unica campagna senza città e senza oppositori attraverso epurazioni di massa. Lo fecero, loro sì, senza perdere tempo.

In minima parte fucilati, perché le pallottole innanzitutto costano e poi non trasmettono quel senso di terrore e disgusto, sicché molti venivano uccisi tramite soffocamento con buste di plastica oppure operati vivi con arnesi incandescenti. Quello che si dice “settimo girone infernale”. Nei famigerati killing fields rimanere esseri umani era impossibile. L’orrore imposto dai khmer ha vinto anche sui sopravvissuti, su un intera generazione di cambogiani, eliminando qualsiasi forma di entusiasmo, trasformando l’uomo in oggetto.

Sono passati 30 anni, adesso il tempo stringe, anche per i più accaniti garantisti la parola d’ordine non può che essere sbrigarsi, far sì che il processo viaggi spedito e si concluda nel più breve tempo possibile. Ma tra dimissioni di giudici internazionali e neanche troppo velate minacce del governo locale si capisce come questo sia un processo ad un intero paese, ad un intera nomenklatura rimasta al potere anche dopo la caduta del regime che tutto vuole tranne che giustizia sia fatta. Mentre il regime di paura persiste, il tempismo con il quale il tribunale si affanna ad archiviare nuovi casi è quantomeno imbarazzante rispetto alla lentezza palesata nel procedimento principale. Sembra essere certo, ormai, che nessuno avallerà mai la possibilità di aprire nuovi casi, solo quattro persone saranno processate per lo sterminio cambogiano, tantissimi i responsabili di atrocità che rimarranno impuniti. Poco male: i cambogiani hanno imparato a convivere accanto ai propri aguzzini, anche con questo tipo che durante la sua deposizione ha riferito: “la stuprammo….sapete eravamo giovani e gli ormoni….la picchiammo poi per 5 giorni finché lei non confessò”. La fine la immaginiamo tutti. Migliaia le confessioni estorte in questa maniera. Tutte storie da prima pagina, evidentemente la latitudine gioca contro.

Invece i “fratelli”, sorboniani di formazione, conoscono benissimo l’importanza della retorica; non possono più far uccidere i loro giudici, ma utilizzare a proprio vantaggio l’isolamento del tribunale,sì. La Cambogia sembra essere l’unico paese al mondo dove vecchi e malati di alzheimer brillano per lucidità. Tra minacce lugubri, dichiarazioni di innocenza e reminiscenze a dir poco disumane, il tribunale rischia di divenire solo una cassa di risonanza di feroci ed aberranti proclami. L’incubo dei cambogiani rivive in questa eco. L’anno zero richiedeva l’isolamento del paese dal resto del mondo, oggi richiede l’isolamento del tribunale.

L’opinione pubblica internazionale costituirebbe un fattore di pressione importante. Un avvenimento epocale come questo dovrebbe essere portato alla ribalta dai media, ed invece la quasi totalità dei mezzi di comunicazione lo ignora. E se il tribunale non trovasse la forza per togliersi da questa impasse? Niente di che, i morti sono morti, anche gli imputati se ne andranno presto, milioni di cambogiani saranno umiliati, una figlia si chiederà se il padre torturato e ucciso tanto tempo fa non fosse davvero un uomo cattivo; non sarà da biasimare il compagno Duch se l’unico rimpianto che dovesse avere nei prossimi anni fosse quello di aver confessato, o di non essersi fermato alla quota di 5.000 vittime, penserà, forse, che avrebbe potuto essere già libero. Il vero rischio insomma è che la nuova Norimberga si trasformi in un boomerang.

Allora sì, sarebbe stato meglio lasciare che la legge naturale fosse arrivata per prima a seppellire Khmer e vittime, affidandosi all’adagio di Voltaire per il quale il tempo sistema tutto, lasciando poi alla storia il compito di dare l’intera responsabilità a Pol Pot. Triste, troppo per essere accettato. L’unico modo per spostare l’ago della bilancia è quello di far tuonare tra le mura del tribunale la voce della morale collettiva internazionale attraverso carta stampata e telegiornali. Ma su questo fronte tutto tace e l’indifferenza con la quale i media occidentali trattano, o meglio non trattano, la vicenda non fa altro che alimentare la sfiducia ed il senso di abbandono che la Cambogia vive da decenni.

Paola, che lavora a Phnom Penh dal 2007 come consulente per una ONG cambogiana, racconta: “Noi stiamo pubblicizzando il processo in ogni modo, ma nostro malgrado abbiamo registrato una sorta di apatia, effetto di qualcosa ancora radicato nelle mente dei cambogiani. Il processo non è importante solo per quello che è stato ma anche per quello che sarà, per le nuove generazioni, per i bambini cambogiani”. Il terrore impone l’oblio, constatò sulla pelle del suo popolo Hannah Arendt, il silenzio perpetra l’ingiustizia, aggiungiamo noi. Abbiamo aspettato 30 anni invano?