Sulla riforma del lavoro del governo Monti siamo ormai al dibattito farsa
04 Aprile 2012
Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è caduto in un perverso gioco di ipocrisie. Una triste finzione perché nulla cambierà nella sostanza, sia sul versante del riconoscimento alle aziende di un effettivo diritto a risolvere il rapporto di lavoro e sia sul versante del riconoscimento ai lavoratori di una maggiore e reale tutela fuori dal contratto di lavoro, che è la vera necessità nell’attuale scenario economico post-crisi. Si rischia, così, di finire per partorire un nuovo sistema di pura facciata, vuoto di contenuti e cambiamenti, che manterrà inalterati sia lo scarsissimo appeal sugli investimenti che le capacità a risolvere gli arcani problemi dell’occupazione giovanile.
Dopo l’incontro notturno tra governo (Monti, Fornero, Passera) e leader dei partiti di maggioranza (Pdl, Pd e Udc), il rischio si fa quasi certezza. La cronaca, infatti, racconta di un accordo raggiunto che prevede due passi indietro sul testo licenziato la scorsa settimana (“salvo intese”) dal consiglio dei ministri. Ossia, un parziale allentamento della stretta sulla flessibilità in entrata (cosa buona e giusta) ma anche una parziale stretta sulla libertà di licenziamento per motivi economici: come una moviola, insomma, sembra si sia tornati (quasi) al punto di partenza. L’intesa sarebbe quella di produrre un emendamento accolto dal governo con il fine di introdurre le due novità.
Le correzioni ai licenziamenti economici individuali (flessibilità in uscita) hanno come riferimento il modello tedesco, con il potenziamento della conciliazione preventiva e la previsione che, qualora sia accertata l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo, il giudice potrà condannare il datore di lavoro alla reintegrazione oppure al pagamento di un indennizzo. Insomma, la novità starebbe nel far ritornare prepotentemente in un ruolo di primo piano la magistratura, che conserverà l’ultima parola sulla sorte del “posto di lavoro”, con l’arma letale della riabilitazione sic et simpliciter dell’art. 18. Ma è una “novità” soltanto rispetto all’idea di riforma; non rispetto alla disciplina oggi vigente. E’ in questo modo, infatti, che funziona pure oggi e a nulla rileverà la “tipizzazione” delle causali oggettive di licenziamento economico, che già sono previste oggi da tutti i contratti collettivi.
Eccoci caduti nel perverso gioco di ipocrisie, con il triste sospetto che facesse parte di un piano strutturato e conclamato dal consiglio dei ministri in quel “salvo intese” posta a condizione per il via libera della riforma. Infatti, consapevole dell’inconciliabilità delle posizioni di riforma promesse all’Ue (e fatte proprie dal Pdl) con quelle del Pd e della Cgil, a Monti non restava che proporre una riforma che scontentasse tutti i partiti, prevedendo che ognuno di essi, per puro spirito di conservazione (elettorale), avrebbe mosso le pedine come in una scacchiera per ristabilire l’ordine di equilibrio, ossia l’equilibrio dello status quo. Così è venuta fuori la riforma del consiglio dei ministri che non accontentava nessuno.
Da una parte, infatti, prevedendo una sorta di maggiore flessibilità in uscita ha trovato favorevole il Pdl, ma contrario il Pd; e dall’altra stabilendo una minore flessibilità in entrata ha trovato favorevole il Pd, ma contrario il Pdl. Ieri notte, poi, un temerario Bersani ha giocato il jolly della pace sociale – complice la Cgil – prospettando a Monti la possibilità di un accordo sulla riforma (il “salvo intese”), qualora si fosse proceduto a delle correzioni sulla flessibilità in uscita, e in particolare sui licenziamenti economici individuali, prendendo come riferimento il modello tedesco (modello caro a tutti i Sindacati).
Messo davanti alla proposta di una riforma con il consenso di tutta la maggioranza dei partiti e a bassa tensione sociale (sindacati), il leader del Pdl, Angelino Alfano, non ha potuto fare altro che restare al gioco e procurarsi il massimo di contro cambio. Ed è così che è riuscito a salvare parte di quella preziosa flessibilità in entrata che, altrimenti, sarebbe passata sotto la mannaia della riforma. L’intesa, quindi, oltre a riabilitare la magistratura sui licenziamenti individuali prevede l’accoglimento delle richieste del Pdl sulla flessibilità in entrata: se proprio la flessibilità in uscita non può essere cambiata, almeno si salvano le imprese dai troppi vincoli sui contratti flessibili e dai troppi oneri burocratici.
“Oggi, in Italia, predomina una concezione “proprietaria”, per la quale il posto di lavoro si può perdere soltanto a seguito di una colpa molto grave, oppure del fallimento dell’impresa. Finché questa sarà la concezione dominante, e a questa corrisponderà la struttura giuridica del rapporto di lavoro e l’orientamento dei giudici, sarà sempre difficile, nel nostro Paese, conquistarsi un lavoro non precario. Anche perché molte delle nostre imprese tenderanno a limitare al minimo indispensabile i “condomini” in casa propria, e le imprese straniere preferiranno investire altrove”. Questo pensiero non è di Marco Biagi, di Maurizio Sacconi, di Silvio Berlusconi e nemmeno di Angelino Alfano. Sono parole di Pietro Ichino, Senatore del Pd, scritte in questi giorni sul Corriere, quasi a prevenire – un segno premonitore! – di ciò che sarebbe accaduto di lì a qualche nottata. Sono parole infatti che fanno a pugni con il giochetto che Bersani ha messo in atto la notte passata con il premier Monti. Un giochetto che colpisce solo ed esclusivamente gli italiani e i tanti giovani che, con sempre più disperazione, cercano un “reddito” da lavoro e non un “posto” di lavoro.