La Germania che cerca di prendersi l’Europa? Tutta colpa di Giulio Cesare
10 Aprile 2012
Nel bell’articolo “L’eterna voglia di egemonia di chi devastò l’Europa due volte”, pubblicato da il Giornale il 1 Dicembre scorso, Francesco Perfetti illustra come “È dai tempi di Bismarck che la Germania cerca di imporsi come centro di tutte le decisioni del Vecchio continente. Il governo di Berlino si ispira a una visione nazionalistica dell’economia e della politica che solo la retorica europeista ha cercato di tacitare”. E aggiunge: “Sulla storia dell’Europa pesa, da sempre, il fantasma della Germania, di una Germania che si è posta l’obiettivo di affermare l’egemonia sul continente. E che, alla fin fine, con questa sua vocazione egemonica è stata all’origine delle grandi crisi dell’Europa contemporanea, a cominciare dalle guerre mondiali. Quel che succede oggi, in campo economico-finanziario – e che potrebbe portare alla disarticolazione dell’Eurozona e alla nascita di un euro pesante che sancirebbe, in realtà, il fallimento stesso dell’euro – è il risultato dell’eterna tendenza della Germania ad affermarsi come punto di riferimento e guida del continente. Una tendenza di volta in volta supportata da strumenti diversi: le armi o la politica economico-finanziaria, i cannoni o lo spread. Sempre in nome dell’interesse nazionale”.
Ebbene, questa smania egemonica dei Germani, ha un’origine antica, traumatica. Bimillenaria. Archetipica. In un fatale errore strategico-politico commesso dal pur grande Giulio Cesare. Mi spiego.
Nel Febbraio del 1997, dopo aver terminato una trionfale tournée del secondo Macbeth della mia carriera, con la regia di uno dei più intelligenti e raffinati registi italiani del dopoguerra, il compianto Sandro Sequi, ed avendo a disposizione del tempo libero prima di portare, in estate, al Festival del Teatro Barocco di Almagro, in Spagna, un testo altrimenti mai rappresentato in Italia, “La figlia dell’aria”, (la storia di Semiramide, mitica fondatrice di Babilonia) capolavoro dello Shakespeare spagnolo, Pedro Calderon de la Barca, per la regia di un altro grande del Teatro, Roberto Guicciardini, accettai l’invito di trascorrere un periodo di vacanze nella sontuosa villa al mare, in Florida, di una cara amica, ricca ereditiera italiana, che negli States aveva impalmato un aitante professore del Mit, il Massachusetts Institute of Technology.
Il tipo si era preso un anno sabbatico e, approfittando della disponibilità di numerose dependance della villa di sua moglie, aveva radunato studiosi amici di diverso tipo, americani e indiani, per confrontare i vari saperi. Mi ritrovai nel mio brodo, in compagnia di gente simpaticissima. Una quindicina di individui, di “matti” che andavano da docenti di fisica, a esperti di strategie politico-militari a insegnanti indiani di yoga ad esperti di storia delle tecniche spirituali. Era molto divertente vedere dalla vetrata della cucina, mentre istruivo il cuoco cingalese su come cucinare un perfetto risotto alla milanese cogli ossibuchi, un gruppo di sì eminenti studiosi, consiglieri del Dipartimento di Stato e maestri di yoga, contorcersi in accanite partite di palla a nuoto nella piscina quasi olimpionica della villa. Verso sera, per combustione spontanea, sui bordi della piscina ognuno poteva parlare agli altri dei risultati delle sue particolari ricerche. Mentre magari echeggiavano dall’interno della villa le note di Chopin, suonato da un grande, anziano ed ebreo pianista internazionale. Amico di famiglia. Io stesso tenni una mini conferenza, molto applaudita, sulla “Inesorabile Pornografia dei Simboli”.
Prendendo ad esempio il fatto che, come aveva anni prima fatto notare un militare intervenuto al Costanzo Show che aveva mostrato una antichissima pietra indiana su cui erano due svastiche (la prima con gli uncini piegati a sinistra, la seconda verso destra) con in mezzo una croce, simboleggianti rispettivamente la Creazione (Brahma), la Sopravvivenza (Visnù) e la Distruzione (Shiva), il ciclo d’azione di questo Universo, la svastica adottata dai Nazisti fosse stata quella della Distruzione. Adler, del ciclo di azione, ne parlava in termini di “carica, scarica, riposo”. E quindi se i politici francesi e inglesi avessero avuto una infarinatura sulla ineluttabilità fatale dei simboli, che sono “pornograficamente” inequivocabili come una bionda che ti mostra le tette, o un maschio che davanti e te si massaggia il pisello, significando pericolose intenzioni inculerecce, si sarebbero armati fino ai denti e magari avrebbero potuto, tanto per non saper né leggere né scrivere, dare una randellatina preventiva sulle gengive tedesche bombardando a tappeto le loro fabbriche di armi.
Tanto per far capire al loro ducetto che dalle parti delle Democrazie la gente non aveva scritto in fronte “giocondo”. (E invece, parla, tratta e parla, si è visto come è finita). Come oggi il mondo civile dovrebbe fare con l’Iran.
Appresi comunque che la mania egemonica dei Germani, la si deve al fatto che Giulio Cesare, quando essi volevano, spinti da migrazioni provenienti dall’oriente, venire di qua dal Reno, li respingeva di là dal quel confine acqueo. In loro si formò perciò un trauma collettivo, maniacale, tramandato nei secoli, di un “movimento verso la sopravvivenza”, continuamente bloccato, respinto. Lo studioso di strategie che ci parlava di questo, illustrò anche come avrebbe dovuto comportarsi Giulio: avrebbe dovuto dire ai Germani (cito a memoria), “Ecco, qui sopra (nell’attuale Olanda e dintorni) vi sono territori semidisabitati e paludosi. Accomodatevi, dissodateli, lavorateli, coltivateli, e noi faremo le strade. Siete i benvenuti nel nostro grande impero, dove potrete mantenere la vostra cultura e la vostra religione”.
E non è un caso, ci disse, che gli States, invece di chiedere i danni ai Paesi che pur avevano scatenato la seconda guerra mondiale, li abbiano aiutati con fiumi di dollari nella ricostruzione e nella loro evoluzione democratica. Per non provocare dannosi, incistati e astiosi “complessi” di vendetta. Proteggendoli anche dall’espansionismo imperialista sovietico, mantenendo a loro spese, per decenni, cinquecentomila soldati in Europa. Ma torniamo ai Germanici. C’è una legge che riguarda i comportamenti umani, della quale sono assolutamente ignoranti i nostrani psicologi e psicoanalisti, per non dire degli psichiatri e dei sociologi. Ed è quella che se si scende a combattere un proprio simile (o gruppo di simili) con la volontà di eliminarlo, se non vi si riesce, o si entra nella “valenza” del nemico, e cioè se ne “assumono” le vittoriose caratteristiche, o si scade nella psicosi, nell’isteria, per cui l’ineliminabile nemico diventa una specie di terribile Nume, responsabile di tutte le nefandezze dell’universo, di tutte le nostre disgrazie, anche del morbillo dei nostri figli, ma talmente potente ed imbattibile che non ci resta, infolarmati e con voce gracidante, che correr di qua e di là disordinatamente affabulando e delirando dei suoi "delitti", ma senza concludere alcunché. Ecco, i Germani si trovano nella situazione di cercare di essere nella “valenza” vittoriosa dei Romani. Ma nel reiterato episodio archetipico, originale, loro furono gli sconfitti e si dovettero ritirare di là dal Reno. E quindi ogni volta che cercano di espandersi e conquistare in qualche modo l’Europa, spacciandosi per antichi Romani, poi combinano qualcosa che “tout de suite” li riporta “di là dal Reno”.
Manca loro, non essendo un loro carattere originale, la grandezza di pensiero, la tolleranza e la pan-determinazione costitutive dei Romani. Fateci caso: anche attualmente, quando qualcuno magari dei loro giornalisti parla, mette sempre in primo piano la faccenda che loro sono i più seri, i più bravi, i più lavoratori, “li mejo fichi der bigoncio” europeo e quindi non vogliono pagare per gli errori di altri. Sicuramente c’è del vero, ma rimangono dei goffi provinciali, come il loro capo Hitler che si pavoneggiava a passeggio per Parigi, la Ville Lumière che aveva sognato quando faceva l’imbianchino. E poi fanno pure grosse marachelle.
Come il disastroso, miope, gretto e provinciale modo di gestire una faccenda poco importante come quella della Grecia, uno Stato di undici milioni di abitanti con un Pil inferiore a quello della Provincia di Treviso. O come quella denunciata da Libero il 2 dicembre scorso: “Non passa giorno che la cancelliera Angela Merkel non chieda una “convergenza economica” per i Paesi dell’area euro. Berlino sogna, in pratica, una gestione comune per le politiche fiscali, regole identiche nel perseguire il rigore di bilancio. E pesanti sanzioni per chi sgarra. Perché allora Berlino non dà il buon esempio e non la smette con i trucchetti contabili che fanno apparire i suoi conti pubblici migliori di quelli che sono in realtà?
Come ha già ricordato Massimo Mucchetti sul Corriere, da 16 anni la Germania "dimentica" di inserire nel proprio debito pubblico le passività della KfW, la versione tedesca della nostra Cassa depositi e prestiti, detenuta per l’80% dallo Stato e per il restante 20% dalle "Regioni" . Non si tratta di noccioline ma di ben 428 miliardi di euro, utilizzati dalla Repubblica federale per garantire i mutui degli enti locali e delle piccole e medie imprese. Avendo il sigillo dello Stato, il debito del Kreditanstalt fur Wiederaufbau gode dello stesso rating del bund e può essere piazzato a un interesse bassissimo. Ma a differenza del bund, chissà perché, non viene conteggiato nel debito complessivo del Paese. Se così fosse, il rapporto del debito pubblico sul Prodotto interno lordo balzerebbe dall’80,7% a oltre il 97%. Come accade per le statunitensi Fanny Mae e Freddie Mac”
Non è un caso che i Britannici si siano tempo addietro ribellati ai nuovi diktat tedeschi.
Come da orgogliosa, albionica tradizione. E alla fine i Germani, dopo aver provocato, come al loro solito, molti disastri, si dovranno piegare all’Europa che giocoforza istituirà finalmente, come saviamente da sempre predica il Cav, una Bce che batta moneta come garante di ultima istanza del totale del debito pubblico europeo.
Il quale, come informava lo stesso Prodi a La7, malgrado la presenza di Stati “cicala”, è pure di quattro punti inferiore a quello statunitense. E anche stavolta, in un modo o nell’altro, vedrete che gli amici crucchi bene o male dovranno tornare con la coda tra le gambe “di là dal Reno”.