Più flessilità nel lavoro funziona: guardare alle grandi imprese Usa
11 Aprile 2012
“Spaccaficu o’ napoletano ha fatto tredici!”, urla un uomo entrato di corsa nel ‘Nuovo Cinema Paradiso’, in pieno spettacolo. In loggia uno spettatore, baffuto e gelatinato, confessa subito la sua invidia: “Sempre fortunati questi del Nord”. Lo dice da siculo pensando a un campano. Questa scena dal noto film di Giuseppe Tornatore, oltre a offrire agli spettatori (quelli veri) un momento di umorismo italico delizioso, cade a pennello quando si apprendono buone notizie che interessano gli altri.
Nel giorno di Pasquetta, il ‘Wall Street Journal’ ha offerto al suo largo seguito un articolo nel quale si dà conto dei trend delle grandi imprese statunitensi in questa fase post-recessiva (gli Stati Uniti fortunatamente non sono ancora in recessione come l’Europa, anzi temono esattamente che il Vecchio Continente ce li trascini di nuovo). Il titolo del pezzo è tutto un programma: ‘For Big Companies, Life is Good’, per le grandi imprese, la cose vanno bene. Della serie “Sempre fortunati questi Americani?”. Si tratta di fortuna? A guardar bene, la fortuna non c’entra proprio nulla. Anzi, il trend delle big companies americane è pieno d’insegnamenti per noi altri, europei del Sud.
L’articolo del WSJ trae spunto da uno studio ‘Standard&Poor’s Capital IQ’ sullo stato delle 500 imprese che si trovano nello stock index dell’agenzia di rating. Il quadro che emerge da questa anomala indagine campionaria è questo: molte grandi imprese statunitensi stanno uscendo dall’incerto quadro macroeconomico più efficienti e più produttive di quanto non lo fossero prima della crisi. E anche maggiormente provviste di liquidità. Questo perché, a legislazioni in materia di lavoro correnti e concorrenti, negli Stati Uniti le imprese nei momenti di difficoltà hanno potuto licenziare, lay-off, ‘per motivi economici’, ebbene sì, e senza ‘reintegro per palese discriminazione’, operando drastiche riduzioni di personale e chiedendo ai propri dipendenti aumenti di produttività.
Piaccia o no, la libertà di cui godono le imprese americane nel licenziare anche per ‘ragioni economiche’ – principio che in Italia stenta a riaffermarsi, ne sia riprova la coltre ideologica sollevata dalle corporazioni sindacali nel dibattito attorno alla timida riforma Fornero – ha permesso alle imprese d’oltre oceano non solo d’incassare il duro colpo del crack immobiliare e bancario del biennio 2007-08 , ma anche di ristrutturare (ovvero licenziare e riorganizzare la forza lavoro nelle imprese), tornando così in pochi anni a generare ricchezza per i propri azionisti.
Quelle stesse imprese – tra cui McDonald’s, Starbucks, Wells Fargo, la nota Apple – oggi si trovano in una posizione di maggiore forza, pronte (seppur cautamente) un domani a tornare ad assumere e creare occupazione. Per il momento, ricorda l’articolo del WSJ, regna però la prudenza sul fronte assunzioni. C’è un problema di aspettative: l’Europa, il primo mercato mondiale per consumo di beni e servizi, è in recessione e il rischio dell’aggravarsi della crisi fiscale che attanaglia molti dei suoi grandi Stati rischia di trascinare l’America in una seconda recessione.
Anche per questa ragione, dei 1,1 milioni di nuovi posti di lavoro nati nelle grandi imprese Usa negli ultimi quattro anni, la maggior parte di essi sono stati generati all’estero – Cina, India e Brasile – dove per lo più si concentrano le produzioni a basso valore aggiunto e ove vigono regolazioni in materia di lavoro ancora meno stringenti rispetto a quelle americane.
Ma anche il fattore ‘grandezza’ delle imprese gioca la sua parte. Infatti solo le compagnie che possono contare su quello che il WSJ definisce ‘global reach’, ovvero la possibilità di competere per fette di mercati nell’economia globale, hanno potuto resistere alla durezza delle intemperie recessive degli ultimi anni. Le piccole imprese, legate a doppio filo all’andamento del contesto macroeconomico nazionale, sono in maggiore difficoltà sul fronte competitività e su quello dell’accesso al credito.
Ora, quali lezioni potrebbe trarre l’Italia da queste belle storie americane? Per esempio, che piccolo non è bello (almeno non necessariamente) e che maggiore flessibilità in entrata e in uscita della forza lavoro costituisce, in un regime economico di mercato, un insostituibile atout per restituire prosperità al tessuto produttivo (e in ultima istanza alle famiglie, siano esse destinatarie di reddito da lavoro, reddito d’impresa o i due allo stesso tempo). Fino a dieci giorni fa regnava in Italia la speranza che si riuscisse infine a riformare lo Statuto dei Lavoratori del 1970 – che tra i suoi innegabili ‘meriti’ annovera l’aver messo figlie contro madri e figli contro padri – oggi infrantasi sullo scoglio del corporativismo conservatore di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Una prova? Il problema del reintegro. A biglie ferme, pare si sia affermato il principio che il reintegro per via giudiziale ‘per palese discriminazione’ sia reintegrato: il ‘reintegro del reintegro’, vuole il gioco di parole giornalistico.
Ora, onde evitare d’esser tacciati d’accanimento nei confronti della riforma voluta dalla ministra Elsa Fornero, l’Occidentale avanza la sua di proposta: perché non prevedere il reintegro per ‘palese insussistenza del motivo economico’ solo per coloro assunti prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero (in fondo se di qualcuno l’imprenditore o l’imprenditrice si vuole ‘sbarazzare’ – “Oui, je suis cruel”-, è della o del dipendente che è costretto a sopportare da dieci e più anni e non di certo di quello o quella assunto ex-novo) e prevedere ‘solo’ – a oggi non esiste – un indennizzo per i nuovi assunti qualora il ciclo economico costringa le imprese a licenziarli? Ci pare di buon senso.
Di questo ‘sassolino-proposta’ che è la nostra nel grande dibattito sulla riforma del lavoro, l’Occidentale ha voluto parlarne con il deputato del Pdl e vice-presidente della Commissione lavoro della Camera, Giuliano Cazzola, il quale ci ‘confessa’ di non esserne entusiasmato. “L’abolizione per i nuovi assunti del reintegro per palese discriminazione [ovvero la possibilità per il/la licenziato/a di ricorrere presso il giudice del lavoro per dimostrare la ‘palese insussistenza del motivo economico’ al fine di ottenere il reintegro, ndr.] non mi convince – dice Cazzola a l’Occidentale – E’ invece il caso di concentrarci sull’occupazione giovanile. Ricordo che negli Stati Uniti il tempo che intercorre per i giovani tra la fine del periodo formativo e l’ottenimento del primo lavoro è di 6,3 mesi, mentre in Italia è di 45 mesi”. E conclude: “Fatto salvo il reintegro per palese discriminazione, l’indennizzo ai nuovi assunti deve essere garantito nei casi di assunzioni in aeree svantaggiate e la conversione di contratti precari con formule a tempo indeterminato”.