“Oggi l’Italia è famosa all’estero solo per Gomorra, bunga bunga e Schettino”

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“Oggi l’Italia è famosa all’estero solo per Gomorra, bunga bunga e Schettino”

11 Giugno 2012

“Secondo un luogo comune, l’Italia sarebbe solo la patria della mafia, della corruzione e dell’evasione fiscale. Nell’immaginario collettivo siamo inaffidabili e pressappochisti” scrive Francesco Sidoti nel suo ultimo libro Il crimine all’italiana. Una tradizione realista, garantista, mite (Guerini e Associati). Il professore di Sociologia e Criminologia all’Università dell’Aquila, dove ha fondato e presiede il corso di Scienze dell’investigazione, in duecento pagine sconsacra alcuni dei luoghi comuni diventati allure dell’italiano nel mondo attraverso un viaggio che ci porta da Beccaria a Durkeim, da Cosa Nostra alla Yakuza, da Churchill a Mussolini passando per Keynes e San Francesco. Sidoti descrive l’autentica specificità italiana del sano realismo in un sistema garantista che tenta di tutelare l’imperfezione umana capitalizzando mitezza. “Parola che non è sinonimo di passività – leggiamo nella presentazione editoriale – bensì va intesa come virtù attiva che esprime un carattere nazionale segnato da una visione estetica e per natura orientato alla pace e alla mediazione. Una mentalità tutta italica che si è tradotta in una lunga storia di meriti”.

Professore, quali sono questi meriti?

Ho cominciato a scrivere questo volume mosso da sentimenti di sdegno per quanto ho visto nel corso del tempo: durante gli anni Ottanta l’immagine dell’Italia era straordinaria nel mondo, con un’affermazione strepitosa del made in Italy in tanti e differenti contesti; oggi c’è un’immagine caratterizzata ormai in maniera precipua dalla narrazione di Gomorra, del bunga bunga, di Schettino, fino al Vaticano, dove si consuma un passaggio feroce dagli anni di Wojtyla agli anni della pedofilia, delle documentazioni di Nuzzi e del vescovo Carlo Maria Viganò.

E lei che visione ci offre del nostro Paese?

Ho tentato di proporre una narrazione diversa dalle due largamente prevalenti e contrapposte, quella di destra e quella di sinistra, l’una tesa a dimostrare che siamo un caso anomalo e ignobile nel mondo civile, l’altra che invece non abbiamo niente di cui vergognarci. La mia proposta è diversa: ho tentato di vedere il bicchiere mezzo pieno, pur sapendo benissimo che esiste anche un bicchiere mezzo vuoto. Per me la tradizione italiana è fondamentalmente mite, realista, garantista, tanto è vero che questi due vocaboli, mitezza e garantismo, sono esclusivamente italiani e difficili da tradurre nelle altre lingue, mentre il realismo è sì italiano al mille per mille, ma in un senso specifico, caratterizzato da garantismo e mitezza. L’Italia è il paese di Machiavelli, ma è soprattutto il paese di Cesare Beccaria, di Giorgio Perlasca, di Paolo Borsellino e di infiniti altri italiani che sono esempi di dedizione civile. Nella ricorrenza del centenario mi è sembrato normale raccontare agli studenti la nostra più bella storia e sottolineare che continua dignitosamente nell’attualità. Durante le ricorrenze del centenario, ho scoperto che sulla criminalità nessuno stava parlando nello stesso modo mio.

Cioè?

Ovviamente c’era una celebrazione dei nostri momenti migliori, ma con una reticenza, come se la nostra storia fosse grande, ma con questa macchia di cui era meglio non parlare. Io invece ritengo sia stata una grande storia anche sotto questo profilo. Che io sappia, nessuno ha sostenuto le stesse tesi (mentre c’è una tonnellata di libri in cui si sostiene il contrario). Così mi sono deciso a pubblicare alla buona gli appunti preparati per le lezioni, nella speranza di contribuire al miglioramento dell’immagine che abbiamo di noi stessi, della nostra terra e dei nostri antenati.

Da chi o cosa dipende questa immagine dell’italianità all’estero?

La nostra immagine internazionale in parte dipende da noi e in parte da altri che, spontaneamente o artificiosamente, diffondono a bella posta un’immagine falsa dell’Italia, spesso servendosi dal materiale copiosamente prodotto dagli italiani stessi. Fondamentalmente e brevemente, alla base di questa immagine negativa c’è però un’ignoranza di profili centrali in una visione criminologica propriamente detta. È ovvio che qualunque paese, se è giudicato in base a criteri astratti di perfezione, risulterà gravemente inadeguato. Questo ragionamento è a maggior ragione vero se si tratta di un paese, l’Italia, che per la sua storica attenzione ai temi della criminalità, attraverso meccanismi come le intercettazioni e la totale indipendenza della magistratura ha reso molto visibile quello che invece altrove è coperto da un codice del silenzio.

Si spieghi meglio….

L’Italia non è il paese di Tangentopoli, ma il paese di Mani pulite, nel senso che attraverso vicende come Mani pulite il crimine è diventato molto più visibile che negli altri paesi. Crediamo di abitare nell’inferno, invece siamo in un affannoso purgatorio democratico, comunque più lontano degli altri rispetto all’inferno. Dal punto di vista della santità e del peccato, c’è in noi, nella nostra storia, un’attenzione al peccato e al crimine che non esiste allo stesso livello degli altri paesi. Sembra che ci sia più crimine, perché è ben più ascoltato, intercettato, discusso, investigato, indagato, processato, condannato che negli altri paesi. La quantità di intercettazioni e la loro pubblicità, la straordinaria indipendenza dei pubblici ministeri, sono due enormi fattori istituzionali che da soli spiegano larga parte della specificità del caso italiano.

Cosa intende per italianità dell’azionismo, a cui ha dedicato un paragrafo del suo libro?

Più di tutti, nella storia italiana, dal fascismo al berlusconismo, gli azionisti hanno sottolineato il tema etico e hanno valutato in questa luce gli uomini politici, spesso condannati in base a profili giudicati squisitamente criminali. Per reazione l’azionismo è stato accusato di essere un deplorevole esempio di intransigenza, massimalismo, perfettismo etico, in qualche misura non-italiano o anti-italiano.

Cosa ha voluto dimostrare?

Coerentemente con il mio proposito di narrare sempre il bicchiere mezzo pieno, ho cercato di dimostrare che anche gli azionisti hanno palesato capacità di adattamento e di misura: sono stati moralisti e combattivi, ma non così estremisti come talvolta si dice. L’azionismo in Italia si è presentato in maniera propositiva di mete ardimentose, ma… all’italiana. In questa luce racconto un episodio assai illuminante della vita di Norberto Bobbio: il suo giudizio su Andreotti, che fu molto possibilista e incerto (in verità anche altri, come Berlinguer, non furono drastici nel giudizio su Giulio Andreotti, ma queste diverse rappresentazioni sono in genere minimizzate, trascurate, dimenticate). La mia ricostruzione di quella fondamentale votazione di Norberto Bobbio, nel 1986, nell’aula del Senato, vorrebbe essere un esempio fra i tanti di come la storia italiana é stata certo complicata, ma non così immorale o criminale come viene descritta. Anzi, è stata per molti versi una storia esemplare, quando è stata realista, garantista, moderata, mite. Non a caso uno fra i più noti azionisti italiani, Alessandro Galante Garrone, fu denominato “il mite giacobino” ed in questa definizione c’è molto: in Francia il giacobinismo è inteso come il partito del terrore; in Italia il giacobinismo può essere accoppiato idealmente e fisicamente con l’idea della mitezza.

Nel suo volume lei cita Mandeville e Malthus, vizi e desideri. Quali sono quelli cronici?

Nel mio volume cerco di mettere in rilievo la specificità del caso italiano attraverso un confronto con altre esperienze nazionali e soprattutto con la cultura anglosassone. Da Mandeville a Malthus, da Robert Merton a Daniel Bell, da John Maynard Keynes a Winston Churchill, tanti autori in lingua inglese hanno spiegato magnificamente le ragioni del pragmatismo e dell’adattamento, la preferibilità di un’etica delle conseguenze rispetto ad un’etica degli ideali assoluti. In Inghilterra il realismo è stato chiaro e crudo, impietoso e disilluso, più che in Italia. Mandeville e Malthus sono in proposito centrali nella cultura di lingua inglese. Hayek e Keynes furono ammiratori di Mandeville e di Malthus, fieramente avversato invece da tutti gli aspiranti benefattori del genere umano. Mandeville e poi Malthus imposero domande per un’etica specifica, alla quale fanno riferimento i primi economisti (Smith, Mill, Bentham), che sono filosofi morali. È il punto di svolta rispetto al rigorismo religioso del peccato, del vizio, del crimine. La nostra storia è diversa, ma parallela. La stessa via di una considerazione realistica del crimine è percorsa a modo proprio in ogni contesto: una lettura comparata permette di cogliere l’originalità e i limiti dei vari contributi.

Oltre che su questo piano generale su quali altri aspetti specifici pensa di avere dato un contributo?

Nel tentativo di ripercorrere la storia della criminalità italiana vedendo il bicchiere mezzo pieno, mi sono confrontato con temi controversi, dal berlusconismo alla mafia. Per quanto riguarda la mafia ho svolto una serie di confronti con la storia delle organizzazioni criminali in altri paesi, da Cuba al Giappone, dagli Stati Uniti alla Russia. Credo di aver mostrato aspetti ignorati o sottovalutati e su questa base ho sottolineato le grandi vittorie sulle mafie che ci sono state in Italia. Abbiamo debellato, o messo in seria crisi, multinazionali che dominavano nel mercato dell’illecito, pagando un prezzo enorme. Anche per quanto riguarda il crimine, possiamo essere orgogliosi di essere italiani ed è davvero stupido avere permesso che invece si sia affermata a livello internazionale un’immagine per la quale dovremmo vergognarci.