Si può fermare per sempre la mano del boia?
20 Luglio 2007
“Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L’assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco”, dice il principe Myškin ne L’idiota di Dostoevskij. Come ricordava Norberto Bobbio in un suo vecchio saggio raccolto nel volume L’età dei diritti, “non uccidere” è l’imperativo che i fautori della pena di morte adducono per togliere la vita all’assassino che ha dimostrato di non tenere in considerazione quella degli altri; ma nel contempo lo stesso principio è usato come argomento decisivo dalla cultura abolizionistica ritenendo che la pena capitale ne sia un’inaccettabile violazione. Il dibattito sulla liceità morale della pena di morte è probabilmente destinato a continuare a livello internazionale, mentre nel nostro paese la tesi abolizionistica è largamente maggioritaria da tempo (anche se non da sempre). Non casualmente, infatti, all’esecuzione di Saddam Hussein il nostro paese ha risposto facendosi promotore dell’iniziativa, sostenuta da tutti i partiti presenti in Parlamento, di sollecitare l’Unione Europea a presentare alle Nazioni Unite una richiesta di moratoria generale, richiesta analoga ad una avanzata, sempre dall’Italia, già nel 2000.
Si può fermare per sempre la mano del boia? È possibile evitare la “trasformazione di un tragico evento naturale in una misura penitenziale”, quando invece la pena dovrebbe essere una “tecnica della coesistenza sociale”? È quanto si chiede Italo Mereu nel suo La morte come pena, un classico dell’argomento uscito in prima edizione nel 1982 e ristampato ora da Donzelli.
Il libro ci racconta molte cose che non sappiamo ed altre che abbiamo dimenticato. Per esempio sottolinea l’autorevole pronunciamento di Giovanni Paolo II a favore dell’abolizione totale, ma del pari ci ricorda quanto dispone ancora l’art. 2266 del Catechismo cattolico: “Difendere il bene comune della società esige anche che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte”.
In un paese civile come gli Stati Uniti si continua a uccidere l’uomo pur spendendo miliardi di dollari perché possa vivere meglio e più a lungo, scrive indignato Mereu. Il suo libro è un viaggio, breve ma puntuale, lungo i sentieri degli argomenti che, dal Medioevo ai giorni nostri, sono stati messi in campo per sostenere la pena capitale. A suo giudizio l’origine moderna sarebbe rinvenibile nell’elaborazione di san Tommaso d’Aquino intorno al “bene comune” (concetto a suo volta ripreso da Aristotele) e all’idea che la società, per tutelarlo, sia legittimata ad uccidere coloro che dimostrano di avere i peggiori e più pericolosi comportamenti. L’assassinio legale, “l’istinto omicida sublimato in istituto giuridico”, mette però in corto circuito la nozione stessa di diritto modernamente inteso come la “tecnica della coesistenze”, secondo la felice espressione di Abbagnano.
In altre parole, se la funzione del diritto è quella che tutti gli riconoscono di creare la pace sociale e rimuovere la violenza dal consorzio civile, la pena di morte è una palese contraddizione di questa impostazione. Nonostante questo ha avuto nella storia molti ed autorevolissimi fautori; per fare solo qualche esempio, Kant, acceso sostenitore del diritto penale esclusivamente punitivo, sosteneva che se sulla terra fosse rimasto anche un solo uomo reo di un grave delitto, il suo posto avrebbe dovuto essere il carcere e, nei casi più gravi, la tomba; Hegel attraverso una formula splendida ma crudele diceva che la forca serviva al condannato a riabilitarlo agli occhi della comunità dopo le malefatte di cui era stato autore. Lo stesso Beccaria, spesso osannato come il precursore della moderna sensibilità abolizionistica, era invece possibilista e in talune circostanze la considerava “giusta e necessaria”. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
È solo con la stagione dei diritti umani iniziata dopo la fine della Seconda guerra mondiale che si comincia ad intendere seriamente l’idea di origine giusnaturalistica del diritto pre-politico alla vita, collocabile al di fuori della sovranità e delle prerogative di qualsiasi regime politico. In proposito vale forse la pena di citare testualmente l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.
Italo Mereu, La morte come pena, Donzelli, Roma, 2007 (pp. 192 – euro 14,50).