Rischio nazionalismo in Europa? L’analisi di Panebianco non regge
14 Giugno 2012
di Daniela Coli
La crisi della moneta unica non si ferma, cresce il desiderio di fuga dall’euro e non poteva mancare la musichetta della rinascita dei nazionalismi e di nuove guerre. Anche Angelo Panebianco, solido scienziato politico, cede alla tendenza del momento ( La tentazione nazionalista, Il Corriere, 12 giugno) e si lascia andare a immaginare un’Europa sconvolta da nuove guerre, l’argomento europeista più banale.
Dalla fine dell’800 l’Europa non è più una potenza militare e all’inizio del terzo millennio gli stati dell’eurozona sono tali vasi di coccio da temere semmai di essere attaccati e conquistati da chiunque al primo colpo. Nessun paese Ue ha la potenza dell’esercito turco, per limitarci all’area mediterranea.
La certezza che saremmo subito invasi e occupati da qualche paese non europeo è il deterrente più sicuro contro qualsiasi conflitto. I secoli in cui ci ammazzavamo con entusiasmo ogni vent’anni sono lontani e quelle guerre, fino alla nascita degli eserciti di leva con Napoleone, erano limitate, combattute da soldati professionisti, senza la distruzione di bombardamenti e atomiche. Se il pericolo numero uno è il nazionalismo di Marine Le Pen, si è capito ben poco del nazionalismo: gli elettori del FN sono contadini, operai, ceto medio basso che protestano contro la delocalizzazione e la globalizzazione.
Soltanto Madonna scambia Marine Le Pen per Hitler. La Francia non è più una potenza militare dalla fine della prima guerra mondiale, come non lo è più l’Inghilterra, i tedeschi sono diventati un popolo mercanti ossessionati dalla paura di fare bancarotta. Solo un regista comico prenderebbe in considerazione la trama di una guerra tra popoli smilitarizzati da quasi settant’anni, con culle vuote e pochi giovani che hanno paura a uscire di casa senza cellulare e chiamano mamma e papà alla prima difficoltà.
Per George Friedman ( The State of the World: Explaining US Strategy, 28 febbraio 2012), con la fine dell’Unione sovietica è finita l’epoca in cui gli europei dominavano il mondo. Per Friedman, il direttore di Stratfor, l’Unione sovietica era l’unica potenza militare europea e, finita l’Urss, è finita l’Europa. Chi agita lo spauracchio del nuovo Hitler sa che l’euro è l’eurodollaro, noi siamo euroamericani e, come dice Niall Ferguson, Italia e Germania sono i migliori investimenti della colonizzazione americana.
Gli Stati Uniti hanno appoggiato la riunificazione tedesca, perché la Germania è il loro migliore alleato e Mearsheimer si augura una Germania nucleare potenza regionale europea. L’euro è stata un’iniziativa francese per contenere la Germania, che non aveva un grande desiderio di lasciare il marco. Friedman sostiene che l’Europa non può essere controllata militarmente dagli americani, la cui mossa strategica per impedire eventuali ambizioni eurasiatiche tedesche è usare la Polonia come cuneo tra Germania e Russia, e, si potrebbe aggiungere, favorire il distacco dalla Federazione russa delle repubbliche asiatiche.
Per Panebianco il nazionalismo europeo consiste nell’identificazione con la “comunità originaria”, con la propria nazione, attualmente più forte dell’”identità europea”, che non si sa cosa sia a parte la bandiera azzurra con stelle, e, appunto, la memoria delle barbarie passate, che viene sbattuta in faccia anche a quei pochi bimbi di asili e scuole semivuote, per immunizzarli dalla più tenera età dal dna nazionalista.
Per gli adulti non ce n’è bisogno, perché sono stati plasmati dalla cultura americana, da cinema e serial americani che con genialità hanno costruito l’identità degli europei: cattolici puttanieri e mafiosi, protestanti frigidi e colonizzatori, pagani biondi e criminali nati. Repubblica ha addirittura eliminato il popolo italiano inflazionandolo: esiste il popolo delle vacanze, il popolo del web, il popolo dell’infradito e della ceretta, non più il popolo italiano.
Il nazionalismo non va cercato in Euroamerica, si trova negli Stati Uniti, che non hanno mai smesso di fare guerre da quando sono nati. Favoriti dalla posizione geografica, dal 1823 con la dottrina Monroe hanno deciso di non tollerare la presenza europea nel continente americano. Dopo la guerra d’indipendenza dalla Gran Bretagna del 1775-1783, le tredici ex colonie britanniche affrontarono la guerra più dura della storia americana, quella di secessione, dal 1861 al 1865 con cui conquistarono e occuparono gli stati del Sud costringendoli a cambiare economia. A ciò vanno aggiunte la guerra col Messico e la guerra del 1898 con la Spagna per Cuba.
Per Friedman gli Stati Uniti sono diventati egemoni nelle Americhe perché gli imperi europei erano distratti. In realtà, gli europei erano sfiniti dalle guerre napoleoniche e guardavano all’Asia e all’Africa, mentre gli Stati Uniti tendevano a estendere l’egemonia dall’Atlantico al Pacifico. Capirono subito il vantaggio di intervenire nei due conflitti europei del ‘900 e con realismo politico si spartirono il mondo con lo stato più forte rimasto in Europa.
L’essenza degli Stati Uniti è un realismo politico di ferro, per cui might is right, e la morale come ideologia. Purtroppo, gli Stati Uniti sono geniali a giocare con la stasis e creare ribellioni contro governi da rovesciare, ma, come ha scritto Friedman ultimamente, non sono in grado di combattere guerriglie e ribellioni contro di loro, come in Vietnam, Afghanistan e Iraq.
Il punto debole dell’empire è la razionalità utilitaristica settecentesca britannica su cui è fondata l’ideologia americana per la quale il fine della democrazia è «il bene comune», che diventa all’occorrenza il bene dell’umanità e del pianeta, declinato in tutte le salse. Per il capitalismo la scienza è come l’acqua per i pesci, ogni innovazione produce crisi distruttrici e nuovi cicli produttivi, però le rivoluzioni scientifiche non si succedono a ritmo di rock, perché non viviamo in un film di Hollywood.
Un eccessivo ottimismo nella propria razionalità ha prodotto la globalizzazione, la convinzione, come dice Niall Ferguson, che gli americani avrebbero prodotto sempre nuovi Mac e i cinesi li avrebbero assemblati. Purtroppo il Pil del Mac non basta a salvare il capitalismo americano e si è prodotto l’effetto Icaro. Il debito pubblico è diventato il sole che può fondere le ali di cera di Icaro e farlo precipitare in mare. Siamo così intrecciati agli States noi euroamericani che anche noi siamo con l’acqua alla gola e il nostro problema non è certo il nazionalismo.
La gente che vota Marine Le Pen sono contadini e operai travolti dalla globalizzazione, ceto medio basso distrutto dalla crisi, abbandonato da élite staccate dalla realtà, come Panebianco che pensa di risolvere i problemi con una democrazia sovranazionale multilinguista per convincere gli europei a non rimanere abbarbicati alla democrazia nazionale. Chissà se Panebianco ha visto l’ultima puntata di Castle, poliziesco senza troppe pretese. Castle e Kate sono mobilitati insieme a Cia e Fbi a cercare la chiave di volta che farà collassare il sistema economico americano e scoppiare il nazionalismo in tutto il mondo con guerre devastanti.
È stato ucciso l’unico che la conosceva, il solito matematico prestato all’intelligence. Si scopre che la chiave di volta del sistema economico mondiale è una bimba cinese, figlia di un potente uomo d’affari cinese che convince i cinesi a comprare il debito americano. Se la bimba sarà uccisa mentre visita il Moma con mamma e papà crollerà l’economia americana, gli States saranno costretti a ritirare l’esercito da tutti i paesi e il nazionalismo distruggerà il pianeta. Finisce tutto bene, bimba salva, i nostri eroi felici di avere salvato il mondo. Chissà se nel prossimo editoriale, Panebianco ci racconta anche della bimba cinese.