Dalla crisi siriana potrebbe nascere un Medio Oriente tutto nuovo

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Dalla crisi siriana potrebbe nascere un Medio Oriente tutto nuovo

09 Ottobre 2012

La Siria è stata inventata dai vincitori della prima guerra mondiale. E’ una costruzione artificiale, oggi messa in discussione dalla rivolta anti-Assad. Quest’ultima non è solo uno brutale scontro etnico e confessionale. E’ anche una guerra per procura. In Siria s’incrociano interessi e rivalità regionali e globali. Il regime e i vari gruppi di rivoltosi combattono anche per gli interessi di attori esterni. Ciascuno riceve dai propri sponsor aiuti politici, finanziamenti e armi. I colpi di mortaio che hanno colpito dalla Siria il territorio turco e la dura risposta di Ankara potrebbero segnare un punto di svolta della situazione. Dallo stallo attuale si potrebbe passare a uno scenario di tipo libico. Il condizionale è d’obbligo. A parer mio, le tensioni continueranno, ma è improbabile un conflitto fra i due Stati.

I principali attori del “gioco” hanno interessi contrapposti, spesso anche al loro interno. La rivolta è divisa. Domina l’incertezza su quale sia il reale peso delle sue varie componenti. Washington appoggia i rivoltosi perché la caduta del regime di Assad infliggerebbe un duro colpo all’Iran, rendendolo più malleabile nei negoziati sul nucleare e sui nuovi assetti geopolitici nel Golfo. Isolerebbe poi l’Hezbollah libanese. Infine, la cacciata di Assad consentirebbe di umiliare Mosca, che lo sostiene. Washington non intende però impegnarsi, più di quel tanto, nel ginepraio etnico e confessionale siriano: è sotto elezioni; sospetta che l’islamismo radicale risulti vittorioso; teme che aumentino le tensioni fra la Siria e Israele. Qualsiasi nuovo governo sfrutterebbe le tensioni con un nemico esterno per mantenere unito il paese. Per questo, gli USA, pur sostenendo la Turchia, loro alleato sempre più indispensabile, si oppongono a un’escalation della reazione turca.

Altre tensioni sono di natura politico-confessionale: tra Sciiti e Sunniti e tra Fratelli Musulmani e Salafiti. I primi sono sostenuti dall’Egitto e anche dalla Turchia. I secondi dalle teocrazie del Golfo. A tali contrapposizioni se ne sovrappongono altre, di natura geopolitica. La Turchia e l’Arabia Saudita vogliono aumentare la loro influenza regionale. Anche l’Egitto sta rientrando nel gioco. Il presidente egiziano Morsi, in modo molto accorto, cerca di ridare all’Egitto la posizione preminente che aveva nel mondo arabo prima della pace con Israele. Nel contempo, tende ad assumere una posizione equilibrata fra Riad e Teheran. Approfitta dell’aumento delle tensioni fra la Turchia e l’Iran, proprio per l’appoggio che quest’ultima dà alla rivolta contro il regime degli Assad, sempre più dipendente dall’Iran. Quest’ultimo, si trova messo sulla difensiva dalla rivolta siriana. Rischia di veder rotta la “mezzaluna sciita” che dagli Hazara afgani si estende fino all’Hezbollah libanese. Teme che un successo sunnita in Siria destabilizzi a Baghdad il governo filo-iraniano di al-Maliki.

La posizione della Turchia è particolarmente interessante. Ci coinvolge direttamente, dato che Ankara fa parte della NATO ed esercita un’influenza crescente in Africa Settentrionale e in Medio Oriente e che la sua politica estera dei “zero problems with the neighbours” va riformulata, si spera in senso favorevole all’Occidente. Essa non ha retto di fronte alla realtà. Oggi, la Turchia conosce tensioni, oltre che con Cipro, anche con Israele, Siria, Iran e Iraq. La sua presenza militare nel Kurdistan iracheno, il sostegno alla rivolta siriana e la violenta reazione all’arrivo sul suo territorio di alcuni colpi di mortaio sparati dalla Siria stanno accrescendo le tensioni con tutti. La politica finora seguita di tenersi fuori dalla mischia, per svolgere il ruolo del mediatore imparziale – tanto vantaggioso per i suoi interessi commerciali – non tiene più. Le scelte che deve fare Erdogan sono difficili. I dilemmi che lo confrontano non riguardano solo la politica estera, ma anche quella interna turca. Per la prima, teme che una vittoria della rivolta in Siria comporti l’autonomia delle province curde del Nord-Est del paese, già basi della guerriglia anti-turca del PKK, oggi particolarmente attiva dal Kurdistan iracheno.

Per contro, una vittoria di Assad porrebbe un Iran trionfante ai suoi confini meridionali, facendo fallire ogni progetto neo-ottomano. Sotto il profilo interno, un intervento diretto in Siria susciterebbe l’opposizione non solo dei kemalisti, preoccupati della crescente islamizzazione dell’AKP, ma anche degli Alevi (oltre il 10% dei turchi), setta sciita “cugina” degli Alawiti siriani, ma di cui Erdogan ha bisogno per avere la maggioranza necessaria per modificare la costituzione in senso presidenziale. La sua cautela è infine motivata dalla riluttanza degli USA e dell’Europa a impegnarsi in Siria. Inoltre, non è ben chiaro il motivo per il quale Assad non eviti di sfidare la Turchia. Taluni pensano che gli attacchi provengano dagli insorti, non dalle forze lealiste. I primi sanno che un intervento militare turco farebbe superare la situazione di stallo e determinerebbe il loro successo.

Ogni ottimistica previsione sulla fine del conflitto, sulla caduta di Basher al-Assad, sulla vittoria dei “buoni” sui “cattivi”, sulla fine delle stragi e sull’inizio di una fase di transizione e di riconciliazione nazionale è smentita dalla realtà degli scontri. Il regime dimostra una resilienza superiore a quella che gli si accreditava. Molti siriani continuano ad appoggiarlo. Sembra che siano il 40%. Solo il 30% è attivo nella rivolta e il 30% rimane neutrale. Ciò spiega perchè le diserzioni dall’esercito lealista siano state contenute. Nessuna unità è passata con i suoi armementi pesanti dalla parte dei rivoltosi. Anche le defezioni dei dirigenti del regime sono state limitate, inferiori a quelle verificatesi in Libia. Poco fondate appaiono le speranze di un colpo di Stato che allontani Assad, aprendo la porta per una trattativa con gli insorti e per un compromesso fra la maggioranza sunnita e le minoranze, che garantisca loro la sopravvivenza e ne eviti la resistenza ad oltranza. Il prolungamento della lotta ne comporterà inevitabilmente la radicalizzazione. La guerra rimarrà di attrito. Alla fine, il regime degli Assad è destinato a soccombere. Troppo potenti sono le forze che vogliono abbatterlo. Il punto di svolta potrebbe essere rappresentato dalle elezioni del nuovo presidente americano. L’Iran è indebolito dalle sanzioni. Per salvare gli Assad, la Russia non continuerà a sacrificare i suoi rapporti con gran parte del mondo sunnita. Emergerà allora un Medio Oriente molto differente da quello artificialmente creato alla fine della prima guerra mondiale.