Da Milano a Bettola, il timing della politica è scattato. Per tutti

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Da Milano a Bettola, il timing della politica è scattato. Per tutti

14 Ottobre 2012

Il Celeste (Formigoni) prende il toro (Lega) per le corna. Il benzinaio (Bersani) apre la corsa alla premiership sventolando una Carta di intenti fatta col misurino per non irritare il compagno di strada (e di coalizione) Vendola. Il comico-nuotatore-maratoneta (Grillo)  brandisce l’arma del secessionismo 2.0. Le crepe di un sistema politico in crisi sono sempre più evidenti, al punto che tra il cosiddetto vecchio e il presunto nuovo non c’è troppa differenza. Almeno per ora.

Le inchieste giudiziarie faranno il loro corso, qui interessa parlare di ciò che accade sotto il cielo di una politica che appare sempre più incapace di auto-rigenerarsi; immobile davanti alla realtà. Ogni giorno vanno in scena aut-aut, schermaglie, botta e risposta, annunci e smentite, accelerazioni e dietrofront, passerelle sui palchi di questa o quella convention con al seguito il gruppetto di giovani che oggi fa tanto ‘figo’: eppure si sente poco parlare di politica, cioè di come rimettere in piedi il paese, di come e cosa offrire alla gente che è stufa e lontana perché non ha risposte, non perché D’Alema è più vecchio di Renzi o Casini è più giovane di Berlusconi.

Tira aria da ’92 nel mare magnum della politica ed è come se la politica facesse fatica a rendersene conto (forse non vuol vedere). Il punto è che le chiacchiere non producono voti, cioè adesioni a un programma di governo. Si rincorre l’emergenza più o meno quotidiana, ma ciò che si fatica a vedere – tra scandali esterni e duelli interni ai partiti – è una visione, una prospettiva, una direzione. Vale per tutti, nessuno escluso. Il voto è lì, dietro l’angolo: che siano le politiche o le regionali in Lazio e adesso pure in Lombardia, il timing è scattato e indietro non si torna. E quindi?

In Lombardia sarà Formigoni a dire quando, dopo il dietrofront di Maroni che a Roma con Alfano sigla un accordo e 36 ore dopo davanti al ‘federale’ approva la linea dura, quella dell’aut-aut, quella delle ramazze di Salvini novello Savonarola della politica lumbard. Il paradosso è che qui non c’è da ramazzare il Trota (xioè in casa propria), si vorrebbe ramazzare un intero sistema politico e di potere lungo 17 anni e del quale la stessa Lega è stata uno degli architrave (politici).

Il caso Zambetti è gravissimo e su questo non ci piove (Lega a parte, sarebbe bastato a consigliare a Formigoni un passo indietro per mere ragioni di opportunità politica), ma la sensazione è che dalle parti di via Bellerio si usi un metro di giudizio, come dire, a corrente alternata. E’ il commento ricorrente nelle alte sfere piedielline dove, non a caso e con una punta di veleno, si ricorda il ‘precedente’ leghista nei confronti del governo Berlusconi (’94).

L’ultimatum del Carroccio è: voto in aprile, entro dicembre la nuova legge elettorale. La risposta di Formigoni è: se questa è la nuova linea degli alleati è inaccettabile l’idea di sei mesi che in realtà sarebbero di campagna elettorale. La Lombardia ha bisogno di un governo e dunque meglio andare al voto prima possibile. Che vuol dire? La legge assegna al governatore la prerogativa di indicare la data (esattamente come accade in Lazio con la Polverini) ed è quello che da domani ha annunciato di voler fare Formigoni non prima di aver chiesto al consiglio regionale di approvare in tempi “ultra-rapidi” (ha scandito a TgCom24) la riforma della legge elettorale per cancellare il listino bloccato.

C’è un altro elemento: adesso si teme un effetto domino nel Tridente nordista del centrodestra-versione-Pdl-Lega ed è questo forse che preoccupa di più Alfano, il quale è alle prese con una grana dietro l’altra: i maldipancia interni su legge elettorale e rassemblement dei moderati e i guai esterni che si sono abbattuti su due regioni-simbolo dell’era Pdl e del berlusconismo, Lazio e Lombardia. Ma la Polverini non è Formigoni e il tema vero è che nella regione-locomotiva d’Italia è a rischio un modello sul quale il centrodestra in questi 17 anni ha fondato la sua forza. Che vi possano essere effetti collaterali l’ha già fatto capire il segretario regionale del Pdl in Veneto il quale come ha riferito Formigoni a TgCom24, ha detto che ‘se la Lombardia andrà al voto anticipato, ci va anche il Veneto’. E poi?

Quanto al progetto dei moderati, chi dopo il passo indietro (o di lato) del Cav. aveva scommesso su un’accelerazione del quadro politico da comporre o – in questo caso da ricomporre – è rimasto deluso. Perché alle viste, al di là degli intenti, c’è ben poco. C’è un Casini prudente, quasi disinteressato a raccogliere la sfida che Alfano gli ha lanciato. Non si fida di Berlusconi e lo si era capito già da tempo, ma non è per questo che la logica della tattica debba prevalere su quella della politica. Il segnale sulla riforma della legge elettorale modello proporzionale con le preferenze (ma siamo sicuri che sarà il modello definitivo e che magari alla fine non resti il Porcellum, come auspicano dalle parti del Nazareno?) sul quale si è ricompattato il vecchio asse Pdl-Udc-Lega è significativo e tuttavia non può essere ‘occasionale’. Con la Lega tornata nella ridotta Padana che adesso vorrebbe trasformare in una macro-regione d’Europa, Casini avrebbe buon gioco nell’intavolare con Alfano un ragionamento serio per non consegnare il paese alla sinistra di Bersani e Vendola. Invece, tutto va (se va) a rilento.

A sinistra la musica non cambia. L’immagine di Bersani seduto sullo sgabello della pompa di benzina del padre dove lavorava da ragazzo, in posa per i flash dei fotografi, ha un che di nostalgico e di solitario. Bettola ‘benedice’ la sua corsa alla premiership ma nel giorno della partenza e della sfida in campo aperto a Renzi e Vendola è costretto a giustificare una Carta di intenti (valida per la coalizione e per i militanti che voteranno alle primarie e che per farlo devono prima sottoscriverla) che sembra più la conseguenza di un taglia e cuci che un manifesto politico col quale una forza, oltretutto data in vantaggio nei sondaggi, si presenta agli elettori per tornare al governo del Paese. Un documento alquanto generico – si commenta nelle file dei moderati piddini – dal quale è scomparsa la parola Monti che ad esempio per lo stesso Fioroni (lo ha dichiarato a TgCom24) è l’unica chiave per vincere e poter governare in tempi di crisi. Per non parlare poi del fatto che l’ex Margherita chiede a Bersani di percorrere la strada non con Vendola ma con Casini.

Non solo, dunque, l’agenda Monti ma pure Monti a Palazzo Chigi. Non c’è niente di ciò nella Carta varata da poche ore, quasi in fretta e furia, da un lato per non turbare gli oltranzisti alla Fassina; dall’altro per non irritare il neo-alleato Vendola il quale sta facendo dell’anti-montismo il suo cavallo di battaglia alle primarie. Renzi non ci sta, anche se invoca l’agenda Monti ma non Monti dopo il 2013. Insomma, il caos. A mille chilometri di distanza (non solo geografica) da Bersani c’è Grillo che prima a nuoto e poi di corsa, sta battendo la Sicilia al voto a fine mese proponendo la sua ricetta: cari siciliani non avete bisogno dell’Italia. Una secessione 2.0? Bella novità.

Al di là del contingente, il punto è un altro: la politica è in ritardo. Clamoroso. Bisognerebbe che tutti, partiti e leader, facessero una riflessione su una questione semplice, semplice: dopo questo voto, niente sarà più come prima. Per tutti. E senza buona politica, non c’è democrazia.