Caro ministro Fornero, con quel “choosy” ha sbagliato su tutta la linea
25 Ottobre 2012
Cara ministro Elsa,
stavolta le contestazioni se l’è proprio cercate! Con i tempi che corrono, come le è venuto in mente di rimproverare i giovani di essere choosy, cioè schizzinosi, nella scelta dell’occupazione? E’ certa di questa loro colpa se l’occupazione non gira, certi lavori vengono snobbati e l’economia arranca? Mi perdoni la sfrontatezza. Lei nemmeno mi conosce, lo so. Ho riflettuto sulle sue parole pronunciate lunedì 22 ottobre al convegno di Assolombarda e alla fine ho deciso di scriverle, piuttosto che limitarmi a commentarle, perché di mezzo stavolta c’è qualcosa di più della solita riforma: ci sono i giovani, i miei figli e il loro futuro, anche di progetto esistenziale.
Le sue affermazioni prestano il fianco a tre critiche. La prima: sono parole che alludono una logica di base che trovo estranea alla realtà. Lei conosce meglio di me i dati Istat sulla disoccupazione: quella dei giovani è oltre il 35% e al Sud supera il 50%. Lei sa meglio di me quanto lavoro nero c’è in Italia (e dove c’è, oggi, si ringrazia il Cielo!) e che spesso un periodo di occupazione irregolare è il passepartout dei giovani, una sorta di training che non risparmia nessuno. Lei sa meglio di me che i giovani sono i precari per antonomasia perché costretti in rapporti di lavoro non pienamente tutelati. Lei sa bene che molti giovani si laureano e il giorno dopo sono fuori dall’Italia e non perché lì possono soddisfare una loro scelta schizzinosa, ma perché è all’estero che riescono a trovare prima e con più facilità la loro fonte di reddito e sostentamento. Ecco, io vedo una realtà fatta di questi fatti dove i giovani, quelli che ancora restano, nonostante tutto, sopravvivono accettando condizioni e un orizzonte di vita futura sonoramente peggiore di quello dei loro padri. Vedo una realtà dove i giovani, nonostante tutto, responsabilmente si sono caricati sulle loro spalle il pesante fardello delle cambiali contributive (vedi alla voce pensioni) e fiscali (vedi alla voce debito pubblico) sottoscritte dai loro padri.
La seconda critica la trovo anche peggiore della prima: le sue parole, anziché infondere speranza e coraggio nei giovani, li demoralizzano e sconfortano. Ma se l’immagina Lei se, di-sperati, i giovani incrociassero le braccia per davvero attendendo il posto ideale? Altro che rottamazione: sarebbe una demolizione, il disastro sociale. Sperare – mi creda – aiuta a vivere. E’ vivere! Nei giovani, poi, sognare un futuro è carburante che alimenta volontà e fermezza nei buoni propositi. Per me è stato così e così vorrei che fosse anche per i miei figli: porsi un traguardo e inseguirlo; poi gioire/soffrire di ogni tappa raggiunta/mancata; ma, alla fine, rallegrarsi soddisfatti del tragitto percorso non importa se e a quanta distanza dal traguardo sognato. Con ciò, mi spiego meglio, non sto dicendo che bisogna nascondere ai giovani la realtà; ma sto cercando di dire che è molto meglio mostrare la realtà in prospettiva evolutiva che involutiva. Infine, ma non per ultimo, la speranza è l’unica cura contro la dilagante corruzione socio-politica: se non ci fosse la speranza di una via d’uscita, oggi, saremmo costretti a insegnare ai giovani l’esempio dei “furbi calcolatori” piuttosto degli “onesti sognatori”.
La terza critica, infine, soverchia ed è parte di fondamento delle prime due. Rivolta ai giovani, li ha ripresi perché «troppo choosy» nella scelta dell’occupazione e li ha consigliati di cogliere al volo la prima offerta che capita, piuttosto che «aspettare il posto ideale». Eccoci al dunque: «posto ideale». Se non le avesse dette, queste ultime parole, non starei qui a scriverle. Questa la mia critica: finché continuiamo a parlare di “posto di lavoro”, non avremo fatto altro che contribuire a sfinire la nostra occupazione e con essa l’economia e la società. L’idea del posto di lavoro come sistemazione per la vita appartiene a modelli organizzativi superati. Intanto, però, ancora molto dilagante è questa idea che peraltro va a confliggere duramente con il vero valore del ‘lavoro’: «actus personae», non solo da dipendenti ma anche da autonomi, da imprenditori e da professionisti. Vede, ho dinanzi a me la recente riforma del mercato del lavoro che porta il suo nome e che, ahimè!, va proprio in questa terribile direzione quasi ad ideologizzare il posto di lavoro. Se si vuole stare dalla parte dei giovani occorre lottare la precarietà figlia proprio di quest’assurda idea del posto di lavoro, con maggiori tutele e non solo con la stabilità. Principale dovere non consiste nell’assicurare con leggi e normative il diritto al posto di lavoro, perché così si finisce inutilmente per irrigidire la vita economica e per mortificare la libera iniziativa. Al contrario, occorre liberare lo spazio di azione delle imprese, assecondando la loro attività per dar vita a quelle condizioni – lo sviluppo e la produzione – che assicurano occasioni di lavoro.
Chiudo qua, cara ministro Elsa, nella certezza che non tutto è ancora perduto. E ancora di più nella convinzione che, semmai dovesse scorgervi un banale suggerimento, Lei non esiterebbe a rimettere mano e correggere le storture normative che non stanno producendo alcun beneficio occupazionale. Lo spero tanto.
Con rinnovata stima.