Quella generazione perduta a cui il nostro Paese sta uccidendo il futuro
20 Agosto 2012
di M.M.
Un’intera generazione perduta, vittima di sprechi causati da altri e senza alcuna certezza circa il proprio avvenire. Ecco la situazione che il nostro Paese deve fronteggiare senza che – almeno a breve termine – si intravedano strategie plausibili atte a fronteggiarla.
Sto ovviamente parlando in primo luogo di coloro che oggi si collocano nella fascia d’età fra i 30 e i 40 anni. Tuttavia le prospettive non sono certo più rosee per i ventenni che studiano all’università o si affacciano direttamente sul mercato del lavoro. Rinunciando a un titolo accademico che, ormai, viene considerato inutile, tranne rare eccezioni riferite a corsi di laurea a numero chiuso e superspecializzati.
Cos’è accaduto, dunque? Tutti sanno che lo Stato italiano ha accumulato un debito pubblico di proporzioni gigantesche, tale da far correre al Paese il concreto rischio di un default. Sui motivi che hanno determinato tale situazione le analisi si sprecano, ma almeno una cosa è chiara. Se il debito non viene ridotto in misura drastica e in tempi brevi sarà il fallimento collettivo, indipendentemente dalle fasce generazionali.
Il problema ha due risvolti, il primo tecnico e il secondo umano. Del punto di vista tecnico si stanno occupando gli economisti. Ogni giorno, infatti, siamo sommersi da analisi che propongono vari rimedi. Senza peraltro che vi sia un pur auspicabile visione comune.
Il lato umano, invece, riguarda proprio tutti, poiché ha implicazioni esistenziali che investono in modo diretto una quantità enorme di persone. Ho usato di proposito il termine “esistenziale” per sottolineare un fatto che reca con sé i tratti della tragedia, e mi spiego meglio. Quando una persona in giovane età è conscia “a priori” che la ricerca del lavoro è una sorta di terno al lotto o, ancor meglio, una roulette russa in cui non si sa quando dal tamburo del revolver uscirà la pallottola mortale, la vita futura assume già i contorni del fallimento.
Non serve aggrapparsi al merito giacché quest’ultimo spesso non viene valutato, oppure si confonde con centomila altri meriti vantati da persone che si trovano nelle stesse condizioni. E pure la vecchia abitudine italica delle raccomandazioni è un’arma spuntata. Se ne è talmente abusato che il sistema ha ormai trovato gli anticorpi.
I sindacati? Meglio non parlarne, visto che sono “pars magna” di questo scenario. Tranne rare eccezioni hanno sempre tutelato gli iscritti e quelli che già avevano, esprimendo una solidarietà solo parolaia a chi è fuori dal recinto delle tutele e delle garanzie.
Né ha molto senso appellarsi al lavoro “flessibile” invocando il modello americano. Tralasciando il fatto che il lavoro – flessibile o meno – molto spesso non c’è proprio, si dimentica che negli Stati Uniti il mercato del lavoro possiede un dinamismo intrinseco da noi inesistente. Ai giovani viene detto di “cambiare mentalità”, ma non si capisce bene cosa ciò possa significare se intorno, invece della flessibilità, vedono soltanto un’enorme palude.
Penso spetti agli economisti indicare delle vie d’uscita da una situazione così tragica. Si è già notato, per esempio, che non si può addebitare alle giovani generazioni il peso del debito pubblico poiché non ne sono responsabili. Di qui la proposta di ridurre il carico fiscale per gli under 40 aumentandolo in modo speculare per gli ultraquarantenni. Non so se sia fattibile, ma costituirebbe sicuramente una misura di equità.
Dal canto mio intendo sottolineare un aspetto non strettamente tecnico. Non a caso prima ho usato l’aggettivo “esistenziale”, per rimarcare che l’aspetto economico – in casi come questi – si riverbera direttamente sulle aspettative che ognuno di noi nutre nei confronti della vita.
E le aspettative dei giovani sono, ovviamente, maggiori e più preziose di quelle manifestate dalle generazioni più anziane. Se si continua così rischiamo di uccidere la speranza dei giovani nel futuro e il loro gusto per la vita. Non credo possa esistere colpa più grande.