I liberali sanno che esiste anche un diritto all’intolleranza

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I liberali sanno che esiste anche un diritto all’intolleranza

I liberali sanno che esiste anche un diritto all’intolleranza

27 Luglio 2007

Secondo un trito luogo comune, mentre
in Brasile una goccia di sangue bianco rende bianchi, negli Stati Uniti una
goccia di sangue nero rende neri. L’adagio mistificante – in realtà, la
generosità brasiliana concede a tutti una cittadinanza pressoché inservibile
sul piano della protezione dei diritti civili, specie quando si abita nelle favelas – mi è tornato alla mente
dinanzi all’indecente spettacolo di doppiopesismo che si svolge da tempo in
Italia. Una goccia di intolleranza verso gli “altri” – ad esempio verso il
condomino musulmano che impone il chador
alle donne di casa – fa un razzista ma una vaga condanna della violenza
fondamentalista da parte di un imam intervistato da RaiTre ne fa un sicuro
pronipote di Thomas Jefferson.

E’ il risultato dello scavo in
profondità effettuato dalla vecchia talpa antimoderna, almeno da due secoli a
questa parte. Oggi l’infaticabile roditore è riuscito a reclutare migliaia di
antropologi relativisti, operatori delle comunità di base e di accoglienza,
sociologi multiculturalisti, storici storicisti disposti a storicizzare (e a
giustificare) tutto tranne i “crimini” dell’Occidente, militanti della sinistra
comunitaria e nostalgica (del premoderno), allo scopo precipuo di adulterare il
linguaggio, immergendo le parole nella notte nera in cui diventa impossibile
distinguerne i profili concettuali. I nuovi padroni del pensiero sono in grado
di ricattare i nemici e di gratificare gli amici con due armi tanto improprie
quanto efficaci: la “china pericolosa” e la “china virtuosa”. Grazie alla prima
– ricavata, col sistema taglia e incolla, dalle pagine di Adorno sulla “personalità
autoritaria” o da quelle di Foucault sulle “istituzioni totali” – qualsiasi fuoruscita
dalla “sociologia della liberazione” diventa una “prefatio ad Hitlerum”; in virtù della seconda, si realizza la
promessa: “dì una parola buona e sarai salvo”. In un caso, la famiglia padovana
che si lamenta del traffico di droga e della prostituzione promiscua sotto casa,
invocando severe misure di polizia, ispira ad analisti sociali come Alessandro
Dal Lago riflessioni sconsolate del tipo: “stiamo diventando un popolo di
razzisti!”; nell’altro, il fatto che Hamas dichiari di non essere antisemita ma
solo antisionista, diventa il segno inequivocabile che l’estremismo palestinese
non ha nulla a che vedere coi tagliagole islamici, algerini o afgani, e che tra
le sue fonti filosofiche ci sono Locke e Voltaire, Mazzini e Lincoln.

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In realtà, contro questa cultura non
più della “resa” ma della “disfatta”, bisogna avere il coraggio di “riprendersi
le distinzioni”. E di dire, ad esempio, che tra i diritti liberali ce n’è anche
uno all’intolleranza (relativa, s’intende) nei confronti di quanti minacciano i
nostri valori, le nostre tradizioni civili, il nostro ‘individualismo’ così
faticosamente conquistato nel corso dei secoli. Ma, soprattutto, occorre tener
ben ferma la distinzione-principe: quella tra il diritto, in parte creato dalla
legislazione (ovvero dalla politica), da un lato, e i costumi, solo in parte
determinati dalla società civile hic et
nunc
.

Stabiliti fermamente i limiti della “sfera
pubblica” e la conformità sociale che essa è tenuta ad esigere da (e ad imporre
a) tutti, l’intera vita di relazione che ne ricade al di fuori, deve poter
liberamente fluttuare tra valori, interessi, stili etici spesso configgenti ma
sempre contenuti dagli argini istituzionali dello stato moderno. Negli estesi
spazi rimasti alla “privacy”, possono albergare “pregiudizi”, antipatie
etniche, persino sindromi xenofobe: veleni morali, certo, che, però, come tutti
i veleni, somministrati in dosi minime, possono risultare utili e
indispensabili per la salvaguardia degli organismi – individuali o collettivi.
Lo sapevano bene i liberali conservatori, e, in primis, il vecchio Edmund Burke, difensore intrepido dei “pregiudizi”
nel secolo della dea Ragione. E se ci si riflette sopra, senza paraocchi
ideologici, perché dovremmo inibirci la “cura” del nostro “habitat”, della nostra
lingua, della nostra cultura? Se democrazia – anche quella liberale che ne è la
forma più matura e responsabile – è partecipazione, la partecipazione non
rinvia a una, sia pur limitata ma ineliminabile, dimensione “comunitaria”, dal
momento che risultano interessati alla “cosa pubblica” quanti la considerano un
patrimonio di memorie, di vie, di piazze, di palazzi, di istituzioni, di
rapporti consolidati nel tempo che si vuole preservare ed arricchire? E il
timore che i nuovi venuti possano aggirarsi nelle nostre città come Unni
culturali non è iscritto nell’umano? Non c’è un diritto alla paura che,
misconosciuto dai governi civili, può diventare, brandito dai governi
illiberali e populisti, una risorsa della barbarie?

Ancora una volta, quello che veramente
conta (e che è di competenza della polis)
sono i diritti, in senso forte, diritti civili e diritti politici: i costumi,
tra le cui pieghe, può annodarsi l’intolleranza, sono – con buona pace di
Maurizio Ferrera e di quei filosofi del diritto che affidano alle leggi il
compito di cambiare pregiudizi e “mentalità retrive” -un fatto privato, la cui
evoluzione (o involuzione) non è affare di pedagogia pubblica ma dipende dallo “scambio
sociale” quotidiano. Il nuovo arrivato non dev’essere, in sostanza, il
beneficiario passivo di una stima morale imposta dall’autorità ma deve
contribuire, con il suo agire, a far crollare il muro della diffidenza. (E’ la
lezione che ci danno alcuni film del più grande regista cinematografico di
tutti i tempi, John Ford)

Solo gli imbrogli semantici dei
nostri maîtres-à-penser possono
spiegare perché, dinanzi alle limitazioni imposte alle donne saudite e
all’asservimento dell’intera vita di relazione ai precetti coranici, ogni tanto
si levi qualche Tartufo relativista a ricordarci che anche in Calabria, negli
anni quaranta, gli individui soffocavano sotto il peso delle tradizioni. A
questi chierici traditori va ricordato che per quanto spiacevole potesse
risultare la vita in un comune della Sila con la sua pesante cappa di conformismo
sociale, nessuna legge dello Stato vietava di esercitare i diritti di
libertà, di militare in un partito anticlericale, di astenersi dalla messa, di
tenere una cattedra di storia e filosofia, anche se atei dichiarati, di
iscriversi a un sindacato, di condurre un’esistenza trasgressiva e libertina
(sanzionata dal disprezzo sociale ma non da questori e magistrati); tant’è che
in pochi decenni i processi spontanei di secolarizzazione, in senso lato, si sarebbero
manifestati anche tra le impervie montagne di Corrado Alvaro.

Stiamo bene attenti: la mancata
distinzione tra “diritto politico” e “costume sociale” non è affatto innocua ma
serve solo a farci trangugiare cibi indigesti, con la vecchia solfa che “anche
noi eravamo così ma poi siamo cambiati”. Per fare accettare, dopo anni di
propaganda anticomunista, l’alleanza (peraltro inevitabile) con l’URSS di
Stalin, una copertina del mitico Reader’s
Digest
riportava il volto sorridente del potentissimo Lavrenti Beria
presentandolo come l’equivalente…  del capo
dell’FBI russa! Il vecchio trucco di ricondurre al noto l’ignoto in funzione
rassicurante in America durò l’espace
d’un matin
ma in Italia – e forse anche in Europa – rischia di confezionare
abiti della mente di cui il mastice dell’ideologia non ci consentirà di
liberarci tanto facilmente. E già ora chi osa sospettare che l’Akp di Tayyp
Erdogan non sia proprio l’equivalente turco-islamico della DC di Alcide De
Gasperi ?