L’hard power italiano tra ambizioni strategiche e realtà di bilancio/2

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L’hard power italiano tra ambizioni strategiche e realtà di bilancio/2

L’hard power italiano tra ambizioni strategiche e realtà di bilancio/2

10 Novembre 2012

I militari italiani dispiegati all’estero 

Le truppe italiane, nel corso della Guerra Fredda, s’erano prevalentemente focalizzate sulla mera difesa dei confini nazionali da attacchi esterni. Tale atteggiamento di tipo strategico venne rafforzato dal dato per cui il paese aveva fatto parte dell’Asse sconfitto nella Seconda Guerra Mondiale. Da ciò il principio in base al quale, l’Italia, considerò – nel corso del tempo, dal dopoguerra in avanti – lo strumento militare alla stregua di mero strumento di difesa. 

Cambio di prospettiva, però, all’interno dell’ex Asse. In Giappone, avvenne subito dopo l’11 settembre. E giudicando l’utilizzo di truppe tedesche in Kosovo, Afghanistan e nel Corno d’Africa nell’ultimo ventennio, una modifica della visione poc’anzi citata – anche per la Germania – appare ormai più che mai pacifica. 

Un cambio di prospettiva avvenuto anche per l’Italia, se si giudica il numero delle volte in cui personale militare italiano è stato dispiegato in operazioni al di fuori dei confini nazionali. Truppe italiane furono inviate in Iraq durante la prima Guerra del Golfo, uno stanziamento seguito successivamente da quello, ben minore rispetto al precedente, in Somalia prima e in Bosnia poi. E ancora, Africa Centrale, Timor Est, Mozambico, Balcani, Iraq (di nuovo), Afghanistan, Libano, e, molto più di recente, nelle operazioni dello scorso anno contro la Libia di Gheddafi. 

Una maggior presenza attiva all’estero dei militari italiani, tuttavia, s’è avuta a partire dagli ultimi anni, nell’ultimo decennio, anche se le origini di questa nuova attitudine di utilizzare le nostre truppe all’estero risale già al 1982 quando l’Italia – assieme alla Francia e agli Stati Uniti – inviò le sue truppe nel bel mezzo della Prima Guerra del Libano tra Israele, l’Olp e la Siria. Un dispiegamento, quello in Libano, nato perché, in questo modo, Roma avrebbe potuto ricavare dal medesimo un ruolo geo-politico preminente nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. 

Ma è a seguito della partecipazione italiana alla missione Desert Storm del 1991 – la prima volta in cui, dalla Seconda Guerra Mondiale, l’aeronautica italiana fu coinvolta in operazioni militari – che si avrà una costante presenza delle truppe italiane nelle operazioni all’estero. Per esempio, nella Guerra del Kosovo del 1999 contro la Serbia, l’Italia fu il quarto contributore tra gli alleati Nato in caccia bombardieri. 

I dispiegamenti più recenti, però, presentano e rappresentano una diversa fotografia dei contributi dell’Italia alle operazioni multilaterali rispetto a quelle del passato, specialmente nei casi delle truppe di terra inviate in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, nel 2003, in Afghanistan, come parte della missione Isaf e in Libano a seguito della ‘Guerra dei 33 Giorni’ tra Israele e Hezbollah del 2006. 

Il governo italiano ha ritenuto opportuno far passare detti dispiegamenti alla stregua di missioni di peacekeeping (o umanitarie che dir si voglia). Ma, certamente, né la missione in Iraq né quella in Afghanistan possono considerarsi alla stregua di soft power

Iraq. Tale missione – giugno del 2003 – novembre 2006 – è da considerarsi un’esperienza piena di difficoltà d’ogni genere e sorta, che indubbiamente ha rafforzato l’inclinazione dell’Italia a tenere e mantenere un comportamento più prudente in Afghanistan. Inviate a seguito della campagna americana contro Saddam Hussein e della relativa cacciata dal potere – una campagna decisamente impopolare agli occhi dell’elettorato italiano – la decisione d’inviare le truppe italiane venne giustificata dall’esecutivo come un “intervento urgente in favore della popolazione irachena”. In accordo con questa visione, il ministro della Difesa italiano dell’epoca disse trattarsi di un’operazione “antitetica alla guerra”.  

Ma di guerra si trattava. Giusto qualche mese dopo il dispiegamento di oltre 3000 uomini a Nassirya, città a Sud-Est dell’Iraq, un avamposto italiano (poco protetto) venne attaccato da un attentatore suicida, che uccise 13 carabinieri e 4 soldati. In risposta, venne dato l’ordine a gran parte delle forze di ritirarsi dalla città. Insomma, ben altro rispetto alle missioni di peacekeeping e stabilizzazione dei Balcani condotte negli anni precedenti. 

Inoltre, nella primavera del 2004, le restanti truppe italiane ancora presenti sul territorio, si trovarono costrette ad affrontare violenti combattimenti urbani contro l’esercito del Mahdi, a seguito della decisione adottata da Roma di ridurre il contingente di terra. Da lì si decise di concentrare la gran mole di truppe italiane alla base aerea di Tallil, fuori dalla città. Il cambio di governo, nell’aprile del 2006, pose definitivamente fine alla missione. 

Afghanistan. La più grande, la più complessa nonché la più difficile campagna – per l’esercito italiano – dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. Subito dopo l’11 settembre, elementi militari italiani avanzarono nell’Oceano Indiano a sostegno dell’Operazione Enduring Freedom. Ingaggiata principalmente con il compito di controllare detta porzione di Oceano e le navi sospette, la portaerei Garibaldi dispiegò ben otto jet AV-8 (Harrier), jet autori di oltre 300 missioni in Afghanistan. Tuttavia, nel tempo, Roma ha ristretto l’uso degli Harrier esclusivamente per identificare gli obiettivi, lasciando le missioni più operative agli altri alleati. 

Sul terreno, il contributo dell’Italia ha recentemente raggiunto quota 4000 unità. Inoltre, le truppe italiane assunsero l’intero controllo del comando di Isaf dal settembre del 2005 al maggio del 2006, in un’ampia area dell’Afghanistan occidentale, a guida del Provisional Reconstruction Team a Herat, contribuendo nel contempo ad addestrare le forze di sicurezza afghane. 

Mentre questo genere di informazioni è ben conosciuto dai più, molto poco è stato scritto sui combattimenti che hanno riguardato, negli anni, le truppe italiane impegnate sul campo. Inizialmente, ciò dipese dal fatto che le truppe italiane in Afghanistan fossero poco armate ed equipaggiate, sempre nella misura in cui la missione avrebbe dovuto assumere le sembianze della missione di peacekeeping del Kosovo. E, sicuramente, l’originaria missione Isaf sotto egida Onu, nata in antitesi agli sforzi di Enduring Freedom di rovesciare il regime talebano e dare la caccia agli ultimi membri di Al Qaeda, fu concepita alla stregua di un mandato per dare supporto alla ricostruzione dello stato afghano. L’ultima cosa che Roma avrebbe voluto sotto l’aspetto mediatico, infatti, riguardava la possibilità di garantire la sicurezza mediante un più robusto utilizzo di truppe. 

Ciò non significa che non potessero essere coinvolte nelle operazioni militari. Per esempio, da metà marzo 2003 a metà settembre 2003, un contingente di circa 1000 soldati italiani venne coinvolto nella cosiddetta Operazione ‘Nibbio’: un’operazione compiutasi al di fuori dalla base di Patkia, ai confini del paese. Alle truppe italiane venne richiesto di aiutare le forze di coalizione affinché venisse impedito ad Al Qaeda e ai Talebani di reinserirsi in detta porzione di territorio. 

Tuttavia, il governo italiano ne aveva comunque inviati, di soldati, in Afghanistan orientale – senza peraltro l’ausilio di elicotteri, armi pesanti o mezzi corazzati. Ergo, evidenti apparivano i limiti d’operatività per le forze italiane. Di conseguenza, gli sforzi consistettero nella costruzione di checkpoint, nell’istituzione di posti di blocco nelle potenziali vie di fuga degli insurgents e nel pattugliamento delle aree. 

Sebbene in detta zona non si assistette ad alcun focolaio talebano a partire dal 2006, l’attività medesima degli insurgents cominciò nel tempo ad accrescere. Ma in un’area grande quanto metà dell’Italia e abitata da oltre 2,5 milioni di afghani, con gran parte delle risorse delle forze italiane utilizzate in personale, armi e trasporti, portare a compimento la missione Isaf nella regione, per parte italiana, divenne un compito improbabile. 

Per effetto della pressione del suo stesso establishment militare e degli alleati Isaf, poi, il governo di Roma accrebbe il peso delle forze italiane nella regione e fornì più assistenza in termini di mezzi corazzati, aerei, aerei da trasporto, veicoli aerei senza equipaggio ed elicotteri d’attacco. Effetto di detto dispiegamento, la partecipazione attiva del contingente italiano a numerose operazioni di pattugliamento nella zona di Helmand e, in un numero limitato di casi, anche a operazioni attive in ottica anti-talebana. 

Però, si dà anche il caso che i governi italiani – sia di destra che di sinistra – non abbiano voluto che i militari partecipassero alle operazioni più pericolose nel sud o nell’est del Paese. E fu solo nel 2008 che l’esecutivo italiano modificò l’impostazione secondo cui Roma non avrebbe mai e poi mai approvato per le forze italiane la possibilità di assistere gli alleati fuori dall’area di loro competenza. 

Ma ora, come nel caso degli altri contributori Isaf, l’Italia ha cominciato a diminuire il numero delle truppe dispiegate in Afghanistan. A causa dei noti problemi di bilancio pubblico, Roma vorrebbe ridurre le truppe italiane di oltre 1,200 unità per il prossimo anno e gradualmente portarle a un numero compreso tra le 800 e le 1000 per la fine del 2014, stante il principio per cui è proprio il 2014 l’anno in cui il governo afghano assumerà il controllo del paese sulla sicurezza. 

Nonostante l’esperienza delle missioni italiane in Iraq e in Afghanistan siano state alquanto problematiche, non v’è alcun dubbio che abbiano aiutato gli italiani a creare forze più professionali. Lavorare con gli alleati in un ambiente ostile e lontano dall’Italia ha rafforzato non poco le truppe italiane sotto l’aspetto logistico, per esempio. Le ha ammodernate, in altre parole. 

Se lo stesso possa dirsi per i policymakers italiani, atti a decidere come impiegare i soldati all’estero e le ragioni per cui detti dispiegamenti debbano avvenire, questo è un altro discorso. Come l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa, il Generale Mario Arpino, ha tenuto ad affermare, “Se l’Italia partecipasse a tali missioni internazionali solo per esservi, per avere più prestigio, ma senza comprendere quali pericoli si corrano, rischieremmo solo di danneggiare gli interessi del nostro paese”.

Quali prospettive

Come già anticipato in precedenza, nel 2012, il governo italiano ha approvato una serie di piani di razionalizzazione per il comparto Difesa. In accordo con quanto scritto dalla nota del ministero della Difesa di quest’anno, “La realtà odierna si contraddistingue per un significativo squilibrio tra il costo del personale militare e i fondi disponibili per mantenere le truppe preparate, pronte e moderne”. 

Il cuore di tale piano è rappresentato dalla riduzione dei costi destinati al personale militare, attualmente oltre il 70% del budget destinato alla Difesa, diminuendo il numero per il servizio attivo da 190,000 a 150,000, nonché i civili a 20,000 unità, dagli attuali 30,000. Con detti tagli e risparmi nel settore, la speranza risiede nella possibilità di liberare risorse per investimenti e formazione. In caso di successo, i parametri di budget diverrebbero più in linea con quelli degli alleati più importanti: 50% al personale, 25% all’ammodernamento e 25% al training. 

Nel breve periodo, poi, anche le spese d’investimento stanno subendo una contrazione, con una riduzione del 28% dal 2011 al 2012. E con la riduzione del 30% negli investimenti per la Difesa a partire dal 2007, il gap d’ammodernamento sta divenendo sempre più profondo. 

Inoltre, mentre il budget di spesa per il 2012 per operazioni e formazione è aumentato del 5,4%, dal 2007 ha visto una diminuzione del 40%. Un’enorme montagna da scalare, insomma. In accordo con quanto affermato dal generale Marco Bertolini, comandante del Comando Operativo di vertice Interforze (COI), "Se i fondi per la formazione non fossero incrementati, l’Italia non sarebbe capace di portare a compimento un’altra missione come quella in Afghanistan". 

Nell’aeronautica italiana, invece, le riduzioni di spesa hanno sostanzialmente ridotto il numero di caccia di quarta e quinta generazione. Un decennio or sono, l’obiettivo strategico della Difesa consisteva nel rimpiazzare l’ormai datata flotta di F-104 e cacciabombardieri attraverso la locazione di F-16 e l’acquisto di 121 Eurofighter Typhoon, 40 F-35Bs e 69 F-35As. 

L’ordine dei Typhoon, inoltre, è stato tagliato addirittura a 96, e 62 e sono quelli attualmente in servizio; l’acquisto dei F-35B, invece, è stato ridotto di 15; e quello degli F-35A tagliato di 9 unità. Sebbene queste nuove acquisizioni rappresentino chiaramente un tentativo di accrescere le capacità aeronautiche, non s’è potuto non assistere a un peggioramento dello stato dell’intera  italiana. Peggioramento dettato dalla diminuzione, dei caccia, da 313 agli attuali 220. Infine, nella misura in cui verranno ritirati dal servizio, nel prossimo futuro, anche i Tornado degli anni ’70, i caccia tattici italiani consisteranno, ormai, solo di 150 unità. 

La flotta navale sta seguendo più o meno il medesimo sentiero. Nel giugno del 2012, l’Ammiraglio Luigi Binelli ha annunciato che tra le 26 e le 28 navi saranno ritirate nei prossimi anni. E sebbene s’andranno ad aggiungere alla flotta nuove navi, il numero complessivo si ridurrà e non s’avrà, tra sostitute e sostituite, un rapporto di 1:1. Per risparmiare sui costi delle navi in disuso, però, il governo sta valutando la possibilità di venderli ad altri paesi o, semplicemente, regalarli. 

Anche il numero delle brigate ha subito un brusco ridimensionamento. Nel 1991, erano 19. Nel 1997, 13. Con il nuovo piano, da 11 diverranno 9. Simultaneamente, l’esercito italiano ha visto il numero di tank sforbiciati di più della metà di unità, dal 2001, con un’eguale perdita di armi d’artiglieria e mortai. Motivo di una simile policy, potenziare la flotta degli elicotteri da combattimento, aumentare le capacità delle forze speciali e ammodernare i veicoli a disposizione. 

Per massimizzarne l’effettività, in conclusione, il piano del ministero consisterà nell’investire in maggior operazioni congiunte, nel migliorare la catena di controllo e comando, le comunicazioni e le capacità d’intelligence. Nonché ammodernare la sorveglianza e acquisire nuovi sistemi per marina e aeronautica. Staremo a vedere. 

Tratto da American Enterprise Institute