L’unico modo per uscire rapidamente dal tunnel della crisi è tagliare le tasse
05 Settembre 2012
I consumi italiani sono in drastico declino, così come recentemente certificato da numerosi istituti, tra i quali il Ministero dell’Interno, per quanto riguarda le immatricolazioni delle auto, l’Istat per i consumi e Confindustria per quanto riguarda il settore edilizio.
I dati sono estremamente eloquenti e non lasciano spazio ad alcuna interpretazione: le famiglie italiane non hanno più un livello di reddito sufficiente per sostenere il sentiero dei consumi che si potevano permettere fino a qualche anno fa. Secondo il Codacons, l’aumento generalizzato dei prezzi è stato mediamente del 5% sui prodotti di largo consumo, con punte del 10% per i beni strettamente legati alle quotazioni dei carburanti, il che ha comportato un calo dei consumi pari al 3,3% pro capite nel 2012 (fonte: Confcommercio). La riduzione dei consumi ha ovviamente avuto dei riflessi negativi sul commercio, e non stupisce quindi che nel 2011 abbiano chiuso 105mila imprese commerciali. Un vero disastro, soprattutto in termini occupazionali, se si pensa alle difficoltà che un imprenditore fallito ha nel ricollocarsi all’interno del mercato del lavoro in una fase di crisi come quella attuale, magari alla soglia dei cinquanta o sessant’anni. Ci vorranno dei mesi prima di capire dove si collocherà tutta questa forza lavoro formata da ex-imprenditori senza più un occupazione (e probabilmente senza nemmeno più il capitale investito).
Uno dei settori più colpiti è stato quello dell’auto, che in Agosto ha segnato una flessione del -20,23%, ritornato ai livelli di vendita del 1964. Sergio Marchionne ha dichiarato desolato che non aveva mai visto una crisi simile e che la fine del tunnel è lontana da vedere, facendo presagire che anche nei prossimi mesi la caduta continuerà inesorabilmente. Con effetti disastrosi sull’occupazione nelle fabbriche (in Italia è dell’ultima ora la notizia della nuova messa in cassintegrazione di 3900 operai nello stabilimento di Cassino, dove sono a rischio 10mila posti di lavoro) e nell’indotto che il settore genera, in primis quello delle concessionarie. La crisi dell’auto si sta abbattendo violentemente soprattutto in Francia, dove il crollo delle vendite è stato pari a -43,3% per Citroen e a -37,5% per Renault. Una vera e propria patata bollente occupazionale che potrebbe scoppiare tra le mani del socialista Hollande, che tra i lavoratori ha uno dei punti di forza del suo elettorato. La cessazione degli incentivi statali, l’impennata del prezzo del carburante, l’aumento di bollo e assicurazione ha decisamente creato un costo insostenibile per le famiglie. L’acquisto di una nuova auto sta diventando un lusso sempre a portata di meno persone.
L’altro grande settore malato dell’economia è l’edilizia, tradizionalmente quello trainante per l’intera economia. Il centro studi di Confindustria ha stimato che, dall’inizio del 2008 e fino al principio del 2012, i prezzi sono calati di oltre il 10%, rimasti però del 9,2% sopra il livello medio di lungo periodo in rapporto alla capacità di spesa delle famiglie, misurata dal reddito disponibile. Entro la fine del 2013 i valori nominali dovrebbero ancora scendere del 7% per eliminare la discrasia esistente tra domanda ed offerta. Fenomeno del tutto in linea con tutti gli altri paesi europei, a partire da Spagna, Francia e Olanda. In questo settore è quindi l’Europa intera a rischiare un house crunch, dove i segnali sono tutti nel numero di case costruite e mai vendute, il miglior segnale di un mercato drogato da continui sussidi statali (si noti l’analogia causale con il problema del settore auto) e da un attitudine da parte degli italiani di acquistare casa, quasi fosse un dogma, giusto o sbagliato che sia. Ora che la domanda è crollata, ci si chiede, che fine faranno tutte queste case? Oppure, più precisamente, chi le acquisterà? E, domanda successiva, se nessuno le acquisterà, quale sarà il loro destino?
Il crollo a due cifre del mercato automobilistico ed edilizio sono la miglior dimostrazione di fallimento delle politiche keynesiane che da sempre hanno caratterizzato molti governi europei. La vecchia idea di politica industriale secondo la quale è possibile sostenere un mercato senza domanda con incentivi fiscali per le imprese, le quali producono di più solo perché il mercato va forte solo a causa di motivazioni finanziarie e non reali è evidentemente fallita. L’analogia con il doping nel mondo dello sport è quanto mai calzante. Prova a somministrare l’EPO ad un ciclista e le sue prestazioni aumenteranno immediatamente; ma nel momento in cui glielo togli le sue prestazioni crollano altrettanto immediatamente. Vale nello sport come nell’economia di libero mercato e, mi dispiace per i keynesiani, si è dimostrato vero anche questa volta. Un settore drogato non può resistere nel lungo periodo e quando scoppia, gli effetti sono molto violenti.
Ma c’è un altro denominatore comune da ritrovare nelle cause di questo crollo: la presenza di elevate tasse. Non è un caso, assolutamente, che il crollo dei consumi sia coinciso con l’aumento parallelo di IVA e accisa sui carburanti, un terribile mix che ha prodotto un doppio effetto negativo: aumento dei costi di mantenimento dell’auto e dei prodotti in generale che acquistiamo ai supermercati, per via dell’aumento dei costi di trasporto. E per il settore edilizio, ovviamente, l’introduzione di una tassa suicida come l’IMU, una delle peggiori mai studiate, ha comportato la fine delle compravendite.
Avevamo più volte avvertito il governo dei rischi che questa politica di incremento delle tasse avrebbe comportato sull’economia italiana. Aumento di disoccupazione, crollo dei consumi, chiusura di imprese, aumento diffuso della povertà. Purtroppo abbiamo avuto ragione. Non ci possono essere scuse. Se si vuole in tempi rapidi uscire da questo disastro occorre mettere in pratica quello che i padri del conservatorismo fiscale hanno sempre insegnato e mettere mano a due decreti: uno sulla riduzione delle accise sul carburante, l’altro sull’abolizione dell’IMU sulla prima casa. Non sarà la panacea di tutti i mali, perché ci vorrà ancora molto tempo per uscire dalla crisi (e dagli errori) che stiamo vivendo. Ma avrebbe degli effetti immediati e darebbe respiro a consumi e produzione. Un taglio che può e dovrebbe essere fatto.