La Corte Costituzionale dà ragione a Napolitano: “Quei nastri vanno distrutti”
05 Dicembre 2012
Lo scontro – meglio, il conflitto d’attribuzione – tra la Presidenza della Repubblica e la Procura di Palermo aveva infiammato le polemiche per tutta l’estate. Mercoledì, dopo l’udienza pubblica tra le due parti in causa e quattro ore di camera di consiglio, il verdetto della Corte Costituzionale: “Quelle intercettazioni vanno distrutte”.
Un’estate di fuoco, dicevamo. Con un decreto firmato lunedì 16 luglio, infatti, Napolitano aveva sollevato un ‘conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato’ ex art. 134 della Costituzione, in merito alla vicenda delle telefonate intercettate dalla Procura di Palermo tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex Ministro degli Interni Nicola Mancino a proposito della presunta trattativa Stato-Mafia dei primi anni ’90.
Mercoledì, come già rammentato, la decisione della Consulta. Resa nota, attorno alle 20, mediante uno comunicato di poche righe (il cosiddetto dispositivo, ndr): “Non spettava alla Procura di Palermo valutare la rilevanza delle intercettazioni. Neppure spettava loro di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione ai sensi del terzo comma dell’articolo 271 del codice di procedura penale, con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto”. E ancora, si noti bene: “E’ escluso che il contenuto sia sottoposto al contraddittorio tra le parti”.
In altre parole, per le funzioni istituzionali svolte, il Presidente della Repubblica non è un cittadino comune e ha, in base alla Costituzione e alle sue leggi attuative, una tutela rafforzata. Dalla sentenza della Corte, un chiaro esempio di cosa debba intendersi per tutela rafforzata. La diatriba Colle-Procura di Palermo, infatti, si giocava su un punto: da un lato, il Colle, teso a ribadire il principio per cui compito dei giudici palermitani fosse esclusivamente quello di consegnare le intercettazioni al Gip affinché, le medesime, venissero distrutte senza alcuna comunicazione alle parti e agli avvocati. Dall’altro, la Procura di Palermo volta a rimarcare quanto la distruzione de quo – data la sua irrilevanza, pacifica anche per i PM – dovesse avvenire attraverso un’udienza davanti al Gip.
La Corte ha accolto la prima delle tesi, stante la tutela rafforzata poc’anzi ricordata, rilevabile anche dal terzo comma dell’articolo 271 del codice di procedura penale, nonché da altre disposizioni costituzionali (art. 90, secondo cui “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”) e di legislazione ordinaria (il più volte citato art. 7 della legge 219/1989).
Immediate, le reazioni da Palermo (e dal Guatemala). Nessuna polemica dal capo della Procura, Francesco Messineo: "Ne prendiamo atto", ha affermato. “In ogni caso – ha aggiunto – dovremo leggere le motivazioni". Difesa d’ufficio, invece, da Nino Di Matteo, ora a capo del Pool: “Vado avanti tranquillo nella coscienza di avere agito correttamente e di avere rispettato la legge e la Costituzione”.
Di tutt’altro tenore, invece, Antonio Ingroia, eufemisticamente discusso Pm palermitano ora in Guatemala a dirigere un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico per conto delle Nazioni Unite. In un’intervista rilasciata a La Repubblica, Ingroia ha voluto testimoniare tutto il suo disaccordo nei confronti di una sentenza giudicata “politica”. “Brusco arretramento al principio d’uguaglianza fra i poteri dello Stato”, nonché “mortificazione delle ragioni del diritto”, ha dichiarato. Parole durissime, non c’è che dire.
Inoltre, sempre nel corso dell’intervista, Ingroia sembra andare ben al di là della – legittima, ci mancherebbe – critica alla sentenza: “C’era bisogno di dare totalmente ragione al Capo dello Stato e del tutto torto alla Procura di Palermo”. Insomma, parrebbe – dall’interpretazione autentica delle sue parole – che la decisione della Corte fosse già preordinata. Peraltro, non è la stessa Consulta osannata in taluni ambienti dopo la bocciatura, tre anni or sono, del Lodo Alfano? Sì, è la stessa.