Nudi e vergini al museo

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Nudi e vergini al museo

17 Dicembre 2012

Negli ultimi anni si è finalmente capito che, come direbbe Catalano, è meglio un museo con pochi pezzi bellissimi piuttosto che un museo gremito di roba, che alla terza occhiata in giro ti stende con la nausea da indigestione. Palazzo Altemps fa parte del nuovo indirizzo. Scultura romana scelta, sale sempre più raffinate, a crescere, fino al salone d’onore col magnifico sarcofago Ludovisi e il sublime Galata suicida. Contigua, la cappella del Cardinale Altemps.

Qui, sabato otto alle undici si è celebrata la messa per l’Immacolata. Che non sarebbe una gran notizia, ma ecco la postilla interessante. Mentre la funzione procedeva in cappella, nel salone appena citato c’eravamo noi insieme ad altri fortunati per assistere alla contemporanea esecuzione della musica dedicata a Monsignor Altemps da Felice Anerio (siamo all’inizio del ‘600), riscoperta da Michele Gasbarro ed eseguita dal suo magnifico ensemble Festina Lente.

La scena aveva un che di irreale e anche anacronistico perché, mentre lì accanto si faceva un gran pregare la Vergine e le sue virtù, il pubblico aveva, proprio all’altezza degli occhi, anche se nelle dimensioni ridotte convenzionali alla statuaria dell’epoca, il membro gloriosamente nudo, con tutti gli annessi, del guerriero gallo. Oltre naturalmente ad altre nudità dei numerosissimi soldati, barbari e romani, in battaglia sulla fronte del sarcofago. Grande, grandissima bellezza classica, ma sempre genitali, che in seguito avrebbero cominciato a far paura ai pii cristiani, per finire ben nascosti sotto foglie di fico e drappi vari.

Momento particolarmente esilarante quando il celebrante si è scatenato in una predica decisamente iettatoria, ma chiaramente vincolata alla necessità di trasmettere il messaggio promozionale della ditta. Roba tipo: “Se all’improvviso crollasse il soffitto, se malauguratamente i maestri che suonano così bene stonassero, ecco che tutta questa bellezza che ci circonda diventerebbe brutta. Così se qualcuno di noi uscirebbe da qui e cadesse in peccato, ecco che la pura bellezza della vergine diventerebbe brutta anch’essa…” A parte la scivolata (testuale) fra congiuntivi e condizionali, questo approccio ricattatorio, specialmente con un pubblico, diciamo così non proprio sprovveduto, riunitosi  per ascoltare una messa del seicento, ci è sembrato piuttosto infantile. Comunque, tutto scompare di fronte alla spremuta di bellezza del luogo e della musica.

Neanche mezzo giro di lancette, ed eccoci in un altro posto bellissimo, la Biblioteca Angelica. E’ un salone alto tre piani con le pareti fittamente tappezzate di libri e una balconata che gira tutto intorno. Magia pura. Si tratta di uno spazio immenso eppure con un’acustica ottima, probabilmente proprio grazie all’imbottitura biblica delle pareti.

Ultimo concerto del Festival Pianistico di Roma, organizzato con coraggio e sprezzo del pericolo (le sovvenzioni comunali, statali o private che siano, stanno paurosamente diminuendo, e tutti conosciamo l’amore delle nostre istituzioni per la cultura) da Carlo Magni.

Il Warhol Piano Quartet, privato per un incidente del violoncello titolare, ma con una valida sostituzione, ha suonato Mozart e una divertentissima suite di temi cinematografici di Morricone. Ascoltare le ocarine, i fischi, le armoniche e il galoppo dei cavalli dei western all’italiana ridotti per gli archi in modo così spiritoso è stata una delizia. Non vogliamo chiudere senza segnalare il talento fuori del comune del pianista Andrea Feroci, a nostro parere erede, con il dovuto rispetto, di Arturo Benedetti Michelangeli. Certo, se deciderà di accettare il confronto, saranno affari suoi. Noi crediamo che ci riuscirà.

PS. Problemi di lingua. Torniamo un po’ indietro. Accademia d’Ungheria, 29 novembre, Musica sacra bizantina. Il Coro dei monaci di Sant Efrem canta in ungherese. Bassi profondissimi, interminabili pedali sonori e scuri; un frate, baritono solista, che sembra Rasputin in tonaca e velo nero con fodera rosso sangue, e come unico accompagnamento campanelle che ogni monaco scuote vigorosamente.

Impressionanti i primi minuti, ipnotici i successivi, poi si va in coma. Anche perché la sala da musica di Palazzo Falconieri, sede dell’Accademia, è un inferno di cristallo. Sempre, ma sempre, temperature da forno; d’estate tengono le finestre ermeticamente chiuse, per il rumore del traffico, dicono. D’inverno anche, che andrebbe bene, ma con i caloriferi al massimo. Più di una volta gli stessi esecutori sul palco hanno sperimentato svenimenti e rischiato infarti. Di tanto in tanto proviamo ad aprire furtivamente qualche spiraglio. Niente. C’è sempre qualcuno che corre a tappare tutto.

In più, la lingua ungherese è assolutamente incomprensibile. Due minimi esempi. Ci sono nel nostro mestiere parole che sono praticamente identiche in tutto il mondo. “Orchestra”, oppure “Piano”. Beh, in ungherese orchestra si dice Zenekarra, e piano Zongora. Capito cosa intendiamo?