Saviano e il 25 aprile, l’industria (pop) della memoria
25 Aprile 2013
Il 25 aprile Roberto Saviano spazza via politicanti e pennivendoli e si prende tutta la scena di Servizio Pubblico per far quello che gli riesce meglio, "raccontare una storia". Lo spunto è No. I giorni dell’arcobaleno, il film di Pablo Larrain candidato all’Oscar come migliore pellicola straniera, che ci riporta ai giorni del regime cileno di Augusto Pinochet, al referendum dell’88 che tolse di scena il generalissimo, e alla provocatoria campagna pubblicitaria del fronte del NO che si affidò al giovane pubblicitario René Saavedra per mandare a casa il regime.
Per Saviano il film e quella storica campagna di comunicazione politica sono la dimostrazione che si può e si deve parlare agli altri, a quelli che avevano votato e sostenuto Pinochet, per convincerli che "un altro mondo è possibile". "Se non consideriamo anche quella parte di mondo che la pensa diversamente da noi non trasformiamo nulla," sostiene Saviano, "non vendetta né giustizia ma solo la ricerca della felicità". Da qui tutto un polpettone pedagogico sul "sogno", la capacità di sognare, l’idea che "non possiamo parlare solo di tagli, salario e crisi economica ma dobbiamo pensare a una vita altra, sognare un mondo altro", fino alla citazione conclusiva di Galeano, in puro stile world pop.
E’ il solito Saviano. Ecumenico, romantico e idealista, che imprime una torsione narrativa alle fonti storiche sacrificando la comprensione materiale dei processi economici e sociali. Recita la sua parte accompagnato dalla musica di sottofondo e ipnotizza con i tic, i gesti e il tono di voce dello scrittore eternamente afflitto e prostrato dall’ingiustizia della realtà. Il parallelo, che non regge, è quello tra il regime ammorbidito di Pinochet che il Cile si preparava ad archiviare alla fine degli anni Ottanta – dopo 3.000 morti, centinaia di migliaia di arresti, le torture e lo stato di polizia – e quello berlusconiano che l’Italia è pronta a superare verso una "benvenuta felicità". Non lo dice, ma si capisce.
L’ecumenismo sta in questa pretesa di rivolgersi a tutti e di riuscire a convincere tutti, perché, egoticamente, ritieni di essere il punto di mediazione finale tra comunisti e colonnelli, vittime e aguzzini, ministri e criminali, destra e sinistra, berlusconiani e non, la voce di tutti. Anche i berlusconiani, nel "delirio di onnipotenza" del Narratore, potranno convertirsi alla felicità che sta arrivando. Il 25 aprile sarà la festa di tutti. I lupi ammansiti danzeranno con gli agnelli.
Si prende la Storia travestita da mito – il nome di Pinochet, universalmente noto come sinonimo di dittatura, facilita metafore e assonanze – senza contestualizzarla, senza inquadrare il colpo di stato del ’73 nella Guerra Fredda, nelle conversazioni tra Nixon e Kissinger che accusavano Allende di aver eliminato i suoi avversari politici, nel Dossier Mitrokhin che lo indicava come il collettore di fondi provenienti dall’Unione Sovietica.
La condanna dal parlamento cileno contro Allende, per aver sistematicamente distrutto la democrazia del Paese finanziando gruppi armati, con arresti illegali, imbavagliando la stampa, confiscando la proprietà privata e impedendo ai suoi concittadini di lasciare il Cile, è felicemente espunta dalla narrazione perché servirebbe troppo tempo a spiegarli, quei tempi. Lo scandalo delle armi consegnate dai cubani alle milizie rivoluzionarie viene dimenticato come il capo del partito comunista che minacciava una guerra civile, che avrebbe probabilmente provocato centinaia di migliaia di morti.
"Una fase ricca", Saviano liquida così la rivoluzione liberista scoppiata contemporaneamente in Cile, che avrebbe prodotto un boom economico senza precedenti, vere privatizzazioni non come le nostre, l’apertura agli investimenti stranieri, fino a garantire il 75 per cento dei consensi al generalissimo nel primo plebiscito sul suo governo di emergenza. Una fase ricca, durata un decennio, gli anni Ottanta, durante il quale gli Stati Uniti spinsero il Cile a mettere in atto quelle riforme economiche che nel mantra liberista, con un tasso di crescita annuo del 7 per cento, avrebbero avuto come conseguenza diretta la democratizzazione della vita politica e la transizione a lungo termine verso la democrazia.
E’ quello che è accaduto, ma non si possono dimenticare le divisioni, l’odio, le appartenenze ideologiche che si fanno scontro violento e guerra civile. Non è giusto rabberciare questi sentimenti in un abbracciamoci tutti progressivo quanto illusorio. Ci mancava solo che il pubblico di Servizio Pubblico si alzasse in piedi e si mettesse a cantare Fratelli d’Italia. Stretta di mano, ciao ciao con la manina. Il racconto televisivo è sempre falso e ottundente, come il mestiere dello scrittore. Come la narrazione unificante e pateticamente uguale che ogni 25 aprile ci viene propinata dalla industria della memoria. Duole dirlo ma certe volte bisogna ammettere che ha ragione Grillo.