Il risveglio dell’Orso russo minaccia l’Occidente

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Il risveglio dell’Orso russo minaccia l’Occidente

Il risveglio dell’Orso russo minaccia l’Occidente

06 Agosto 2007

Il 2 agosto un sottomarino di Mosca ha piantato una bandiera
russa in titanio sul Polo Nord, precisamente 4.261 metri sotto la calotta
artica nel punto in cui le carte geografiche identificano l’estremo
settentrionale del pianeta. L’impresa scientifica è ufficialmente volta a provare
come il fondale artico sia un’estensione della massa continentale asiatica, e
quindi a sostenere la pretesa di Mosca di estendere la propria sovranità dalla
Siberia verso il Polo Nord. Ha dichiarato il portavoce dell’Istituto russo per
l’Artico Balyasnikov che “questa spedizione può aiutare la Russia ad allargare
il suo territorio di oltre un milione di chilometri quadrati”. Chilometri sotto
i quali giacciono enormi riserve di materie prime e di combustibili, e sopra i
quali galleggiano tonnellate di acqua dolce ghiacciata, sempre utili nel caso
in cui il riscaldamento climatico prendesse davvero una brutta piega.

A tale motivazione di interesse nazionale se ne aggiunge
un’altra di carattere prettamente propagandistica. Il Cremlino ha sponsorizzato
e presentato la spedizione, ed il suo successo, come un’ennesima testimonianza
della risorta potenza russa grazie alla guida di Putin, considerato anche che
il capo della spedizione, l’esperto esploratore Cilingarov, è anche il
vice-presidente della Duma, il Parlamento russo, espressione del partito
presidenziale Nostra Madre Russia. Il risultato della spedizione ha avuto
amplissimo risalto sui media controllati o intimiditi dal Cremlino, ed ha
fornito nuova benzina per il motore della propaganda nazionalista. Motore che
lavora a pieni giri, ad esempio attraverso il movimento giovanile Nashi. Gruppo
finanziato e organizzato da Putin appositamente per sostenere il suo prestigio,
le politiche del Cremlino e il risorgere della Russia (tre cose che nella
visione di Vladimir coincidono largamente), in pochi anni è giunto a contare decine
di migliaia di iscritti e ad agire nelle principali città russe. Alle sue file
appartengono i ragazzi che hanno picchiato mesi fa, sotto gli occhi compiacenti
della polizia russa, europarlamentari e parlamentari di diversi paesi europei –
tra cui il radicale Marco Cappato e Vladimir Luxuria – riunitisi a Mosca per
ricordare il decennale della cancellazione dal codice russo del reato di
omosessualità. Lo stesso movimento aveva già preso a sassate l’ambasciata
estone a Mosca, sempre nell’indifferenza della polizia russa, quando la
Repubblica Baltica aveva osato rimuovere la statua di un soldato dell’Armata
Rossa dal centro di Tallin. In queste settimane migliaia di ragazzi russi partecipano
ai campi estivi di Nashi che, proprio come nelle colonie fasciste durante il Ventennio,
alternano l’esercizio fisico all’indottrinamento nazionalista per allevare una
“sana” gioventù. Tra i passatempi più gettonati in questi campi c’è il tirare
sassi addosso ai pupazzi degli oppositori di Putin, come l’ex campione di
scacchi Kasparov, raffigurati come marionette degli Stati Uniti.

È sempre più evidente il risorgere di un nazionalismo
aggressivo tra le file delle elitè al governo, dei giovani, e della società
russa in generale. Secondo un commento del Financial Times del 1° agosto, tale
sentimento è in gran parte una reazione al comportamento occidentale. Un ex
funzionario russo afferma apertamente riferendosi agli anni ‘90: “Per molto
tempo noi siamo stati aperti alla cooperazione, e scegliendo democrazia ed
economia di mercato abbiamo reso il mondo più sicuro. Cosa abbiamo avuto in
cambio? L’Occidente ha spinto la Russia nell’angolo, non ci ha capiti. È stata
un’enorme stupidaggine ed un’opportunità persa”. La tesi non è del tutto priva
di fondamento, ma non si può dimenticare il varo per volontà occidentale del
Consiglio Nato-Russia a Pratica di Mare nel 2004, né il dibattito apertosi
nell’Ue a proposito di una forma di partecipazione della Russia alle istituzioni
comunitarie. Sono entrambi segni di una volontà di cooperazione da parte
dell’Occidente, testimoniata anche dai prestiti del Fondo Monetario
Internazionale negli anni delle crisi monetarie e dai copiosi investimenti
occidentali in Russia. Probabilmente il risentimento degli uomini del Cremlino
è dovuto alla perdita di influenza – o addirittura di sovranità – sui paesi
dell’ex Patto di Varsavia e sulle Repubbliche Baltiche, ma questa non è certo
una “colpa” dell’Occidente, semmai un suo merito. Quelle erano nazioni e
popolazioni non russi, conquistati manu
militari
dall’Armata Rossa, e l’Ue e la Nato debbono essere orgogliosi di
aver contribuito alla loro transizione verso la democrazia e il libero mercato
accogliendoli all’interno delle due organizzazioni occidentali. Come ha
dichiarato recentemente il premier estone dopo le ultime intimidazioni russe, “è
un bene che sia finto il tempo in cui solo Mosca poteva decidere cosa era buono
per i paesi a est di Berlino”.

Tale predisposizione anti-occidentale dipende anche dal tipo
di classe dirigente che Putin ha raccolto intorno al Cremlino, negli apparati
pubblici e militari come nelle aziende ri-nazionalizzate: sempre secondo il
Financial Times “i liberali russi vedono la pervasiva influenza dei siloviki –
ex membri come Putin dei servizi segreti – come il motivo principale del nuovo
atteggiamento mentale, perchè essi vedono nemici dappertutto”. Il KGB era la
crema, “La Spada e lo Scudo” come si diceva nel PCUS, del sistema sovietico, e
non stupisce che una leadership proveniente dalle sue fila rifiuti di
consegnare alla Gran Bretagna un proprio commilitone dei servizi segreti
accusato di aver assassinato a Londra con del polonio radioattivo il
“traditore” Litvinenko.

E’ semplicistico attribuire il peggioramento delle relazioni
tra Russia e Occidente al solo Vladimir, ed è ingenuo sperare che un week end a
pescare con Bush possa risolvere i nodi sul tappeto. Putin è causa ed effetto
dell’affermarsi di una classe dirigente e di un sentimento nazionalista ostile
all’Occidente. Certo le maniere forti del Cremlino spianano la strada a questa
evoluzione autoritaria della Russia, ma esse trovano terreno fertile in una
società russa che, per diversi motivi, non ha compiuto una vera transizione
democratica. Sembra purtroppo che la Russia continui ad oscillare tra
autoritarismi di destra e di sinistra, dagli Zar ai Soviet e poi di nuovo ad un
Cremlino nazionalista e onnipotente, senza sapersi assestare su un baricentro
liberale e democratico. Dichiara Dimitri Trenin, il Direttore del Carnegie
Centre di Mosca: “Putin è un vero Zar. Egli non si deve guardare le spalle, il
Cremlino ha la piena sovranità sul paese”.  Di certo esistono in Russia fette di
popolazioni, elitè, giovani, movimenti e partiti che guardano con simpatia ai
valori occidentali, ma essi sono messi all’angolo dai manganelli della polizia,
dalla censura dei media, e soprattutto dall’appeal che hanno tra il popolo
russo le dichiarazioni in stile Guerra Fredda di Putin e lo sventolare della
bandiera nazionale sul Polo Nord.

Alla lunga lista di errori commessi negli ultimi quindici
anni da Usa e Ue nell’approccio alla Russia, purtroppo l’Occidente sta
aggiungendo quello di lasciare sola di fronte al Cremlino l’opposizione
democratica russa. Ci si illude che l’ideologia dominante non influenzi più di
tanto la politica estera di un Paese, che si ipotizza dettata da variabili più “oggettive”,
dimenticando ad esempio come il cambiamento sociale e culturale nei paesi
dell’Est Europa abbia trasformato gli ex nemici negli più stretti alleati
dell’America. Oggi l’involuzione autoritaria e nazionalista non è
irreversibile, i siloviki del
Cremlino non sono (ancora) i padroni del paese, la pur atipica economia di
mercato sta cambiando lentamente la società russa. Ma se si lascia continuare
l’attuale trend in Russia si otterrà una società e un’opinione pubblica sempre
più favorevole alle aggressive politiche del Cremlino: indipendentemente da chi
sarà il successore di Putin, ciò incentiverà l’Orso russo a pretendere sempre
di più, ed i primi a sentire il suo fiato sul collo e a farne le spese saranno
(ovviamente dopo Georgia, Moldova e Ucraina) proprio i paesi dell’Unione
Europea.