Proviamo a dimezzare le Regioni italiane

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Proviamo a dimezzare le Regioni italiane

26 Aprile 2013

Le Regioni come le conosciamo oggi sono il frutto acerbo di quella importante riforma del Titolo  V della Costituzione che diede loro la stessa competenza legislativa dello Stato, l’autonomia finanziaria, il principio di sussidiarietà. Una rivoluzione federale che in Italia è rimasta in parte incompiuta al pari di altre riforme, come ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di insediamento alle Camere.

La storia delle Regioni italiane in realtà era iniziata prendendo tutt’altra direzione, quella impressa dal centralismo sabaudo alla nostra storia risorgimentale. Nell’allora Regno d’Italia le si definiva “compartimenti” e avevano una funzione di sovrastruttura burocratica utile ad aggregare le province. Le successive novità per gli enti locali introdotte dalla Carta del 1947 rimasero per lungo tempo lettera morta perché la DC non si fidava troppo delle Regioni dove bisognava competere politicamente con l’agguerrito avversario comunista.

All’inizio degli anni Settanta «le Regioni vennero al mondo zoppe e malaticce», scrive il costituzionalista Michele Ainis, strette com’erano tra Stato e Partiti, tra potere centrale e occupazione di quel potere da parte delle forze politiche. «Soggetti sostanzialmente amministrativi, dotati di competenze legislative residuali e senza una reale autonomia». Né si può dire che abbiano mai rappresentato chissà quale identità locale visto che i loro confini furono tracciati con le righe e il compasso dai geografi del Regno, unendo arbitrariamente aree disomogenee del Paese.

Il sistema regionale italiano oggi va ripensato nello spirito federalista che è stato indicato dal Titolo V ma tenendo a mente che la ripartizione regionale prevista dalla Costituzione non è un moloch intoccabile. Bisogna dimezzare il numero delle Regioni, accorpare quelle più piccole non tanto e non solo per ridurre sperperi, episodi di corruzione e clientele, ma soprattutto per snellire e deburocratizzare il sistema, semplificarne l’assetto organizzativo, ridurre i costi e aumentare l’efficienza.

In America si dice «less is more», meno è meglio, perché la frammentazione di organismi troppo piccoli impedisce di fare economia di scala, disincentiva gli investimenti, aumenta le spese e offre risorse limitate. Le Regioni con i conti in rosso, di solito, sono quelle più piccole. Occorre quindi una legge costituzionale che riconfiguri i confini delle Regioni, il loro funzionamento, le competenze esclusive, la cosiddetta “clausola di supremazia nazionale”, i controlli sui processi di spesa e i bilanci.

«Un intervento chirurgico» sul Titolo V, l’ha definito il ministro uscente della Pubblica Amministrazione, Patroni Griffi. Se è vero che il governo Monti sapeva di non avere il respiro e il sostegno sufficienti a rivedere l’impianto federale, ci lascia in ogni caso una road-map sull’accorpamento delle Regioni a cui ha fatto seguito un chiaro passaggio nella Relazione sulle riforme istituzionali consegnata dal gruppo di lavoro nelle mani del Presidente Napolitano. 

Sappiamo insomma qual è il percorso da seguire e tornando indietro nel tempo fino agli anni Novanta sarebbe opportuno rileggere quello studio realizzato dalla Fondazione Agnelli che proponeva la costituzione di 12 macro-regioni o aree di sviluppo diffuso fondate sul principio del residuo fiscale pro-capite, perno della loro autosufficienza finanziaria e della capacità di generare progetti di sviluppo. Oggi li chiamiamo “costi standard”, il principio per cui le Regioni che funzionano meglio, quelle che chiudono il bilancio in attivo, diventano modello a cui devono tendere tutte le altre. Lo studio della Fondazione Agnelli prevedeva 22mila miliardi di risparmio generati dall’operazione di accorpamento, senza nuove tasse e senza spese ulteriori.

Fondere Marche, Abruzzo e Molise in una sola Regione medio Adriatica, ad esempio, permetterebbe di valorizzare il maggior gettito fiscale che viene trattenuto a livello regionale dopo la riforma del 2001. Riusciremmo a ridurre le spese correnti, i consumi intermedi, stipendi, benefit, e rimborsi per i dipendenti. Si risparmierebbe unificando le svariate autorità, agenzie, consorzi, enti e imprese pubbliche, che oggi proliferano in uno spreco di tempi e costi.

Si potrebbero recuperare risorse nel settore sanitario, la prima voce di spesa dei bilanci pubblici regionali, puntando a uniformare le aree in deficit con quelle virtuose. Nel 2008 la spesa procapite nella sanità in Molise era di 2.800 euro (il terzo posto in Italia), a fronte dei 1.700 delle Marche, considerando che nelle regioni più piccole il picco della spesa sanitaria coincide spesso con un appiattimento dei fondi per l’assistenza o per l’istruzione. L’Abruzzo, da parte sua, negli ultimi anni ha saputo ridurre la spesa e sanare il deficit. Quale sarebbe la distribuzione variabile dei costi sanitari procedendo a un accorpamento della «marca adriatica», in termini di risparmio, riorganizzazione e semplificazione complessiva del sistema?

Di esempi se ne possono fare tanti. In un’ottica federale gli “uffici diplomatici” regionali favoriscono le strategie commerciali con l’estero, ma fino al 2009 solo le Marche si erano dotate di questi uffici di rappresentanza nel Medio Adriatico. Nel 2012 i consigli regionali di Abruzzo Marche e Molise, messi insiemi, sono costati qualcosa come 60 milioni di euro. Se avessimo  un solo consiglio regionale, perlomeno la metà di questa cifra sarebbe liberata insieme a tante altre risorse per politiche economiche di crescita e di investimento.

(*Deputato del Pdl alla Camera)