“Mare Nostrum”. Letta, l’Italia e il Mediterraneo

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“Mare Nostrum”. Letta, l’Italia e il Mediterraneo

“Mare Nostrum”. Letta, l’Italia e il Mediterraneo

15 Ottobre 2013

Quando il premier Letta e il vicepremier Alfano chiedono una gestione più condivisa della questione immigrazione all’Unione Europea non si stanno lamentando né cercano di scaricare su Bruxelles  un problema italiano. Lo dimostrano i dati. Se andiamo a spulciare la distribuzione dei fondi stanziati dai Paesi della Ue per il Programma Generale "Solidarietà e Management dei Flussi Migratori", pubblicato il 9 ottobre scorso dalla Commissione Europea all’interno del memorandum "Eu action in the fields of migration and asylum", salta subito all’occhio la disparità di intervento tra l’Italia e in generale i Paesi della "Finis Europae" (Spagna, Grecia, Cipro, Malta…) con gli altri grandi Paesi europei.

La Germania delle rieletta cancelliere Angela Merkel, innanzitutto. Tra il 2007 e il 2013, mettendo insieme i fondi stanziati per la gestione dei confini esterni della Ue, per il ritorno degli immigrati illegali nei loro Paesi di origine, per i rifugiati e per l’integrazione, la Germania si è impegnata complessivamente per 265 milioni di euro, la metà di quanto abbiano fatto l’Italia (478 milioni) e la Spagna (485 milioni), ma addirittura meno della Grecia (375 milioni). Piccoli Paesi come Malta (85 milioni) e Cipro (56 milioni) hanno stanziato fondi in proporzione molto alti se paragonati a quelli di Berlino. Altri grandi Paesi europei, come la Francia (319 milioni) o la Gran Bretagna (121 milioni), si sono sforzati relativamente poco per affrontare quello che da più parti viene considerato un "fenomeno epocale". 

Purtroppo la maggiore condivisione di responsabilità chiesta da Roma ai partner europei si scontra con quell’altro fenomeno di progressiva "regionalizzazione" della Ue, emerso sempre più chiaramente con l’Età dell’Austerity e la Guerra del Debito: con il formarsi cioè di una serie di blocchi di Paesi all’interno della Unione che fanno capo ad uno "Stato-guida" e che rispondono ad obiettivi ed interessi divergenti. Per cui la Germania, che in passato ha dovuto affrontare in prima linea i flussi migratori dall’Europa Orientale dopo la caduta della Cortina di ferro, oggi non mostra una spiccata sensibilità verso la pressione migratoria proveniente dal Nord Africa e che interessa in particolare i Paesi dell’Europa meridionale. Né il trend sembra destinato ad invertirsi nel futuro prossimo.  

A questa criticità se ne aggiungono altre come il mancato e tempestivo ripensamento della Strategia di Barcellona dopo i mezzi fallimenti degli anni scorsi. Se in principio il "Partenariato euromediterraneo" si era arenato sulle solite questioni come il conflitto israelo-palestinese, i temi della sicurezza post 11 Settembre, le divisioni tra Europa e mondo arabo successive al conflitto in Iraq, sia il processo di Barcellona che l’idea tirata fuori dal cilindro dal Presidente Sarkozy di creare una "Unione del Mediterraneo" sono state definitivamente travolte dalle "Primavere Arabe", le rivoluzioni scoppiate in Nord Africa e in Medio Oriente negli anni passati.

Le Primavere Arabe hanno avuto una grande influenza sul terzo elemento critico della gestione europea dei processi migratori, ovvero la scarsa capacità dell’Unione di intervenire al momento giusto in scenari di crisi: il crisis management non tanto nelle sue declinazioni "umanitarie" quanto in quelle "geopolitiche" (le risposte comuni che la Ue è in grado di offrire alle crisi regionali nelle sue aree di confine). La Libia, da questo punto di vista, è un caso di scuola. Dopo la caduta del Colonnello Gheddafi, la NATO ha abbandonato il Paese e la Ue non ha saputo prendere il posto dell’Alleanza Atlantica per affiancare e sostenere il Nation Building libico, contribuendo quindi ad alimentare quel vuoto di potere di cui oggi ci si lamenta ma che in realtà è meno grave di quanto si pensi. La partecipazione dei Paesi europei alla ricostruzione democratica della Libia, infatti, non è molto più complessa di quella che sta avvenendo o è già avvenuta in altri Paesi, dai Balcani all’Afghanistan.

La Libia non è una nazione povera e dopo la Guerra ha ripreso a crescere soprattutto grazie al suo asset privilegiato, le materie prime, petrolio e gas (tra i primi produttori africani e nella top ten di quelli globali). Non è neanche vero che a Tripoli manchi del tutto un Governo: la Libia attualmente ha un premier, Alì Zidan, vicino all’Eliseo, che durante la Guerra fu tra quelli che spinsero la Francia a intervenire anche sul terreno; gli stessi che oggi vorrebbero tenere insieme le forze che strinsero in una tenaglia il Rais, evitando che il dopoguerra libico finisse per coincidere con la vittoria della Cirenaica sulla Tripolitania, e con la conseguente spaccatura in due parti del Paese.

La Libia, entro la fine di quest’anno, dovrebbe scrivere la sua nuova Costituzione e vivere un decisivo appuntamento elettorale. Tutto questo l’attuale classe dirigente lo sta facendo "da sola", senza un aperto sostegno delle democrazie occidentali. Le anime belle che in Occidente gridano sconcertate all’involuzione delle primavere in un inverno arabo dovrebbero domandarsi cosa abbiamo fatto per evitarlo. 

Ovviamente l’ottimismo e la speranza di una ricostruzione dello Stato libico deve fare i conti con la storia del Paese, che dopo l’indipendanza non ha mai conosciuto una vera democrazia, e con una situazione complessa sul campo: si pensi al sequestro lampo del premier Zidan avvenuto nelle settimane scorse, quando il premier per un giorno è stato rapito dai fondamentalisti islamici per poi essere rilasciato subito dopo. Un atto di forza della internazionale jihadista, un messaggio agli Usa che avevano catturato un elemento di spicco di Al Qaeda lasciando filtrare con un troppa noncuranza che l’operazione era avvenuta d’accordo con Tripoli. Come pure sono evidenti le difficoltà del Governo centrale di tenere sotto controllo la babele di gruppi tribali, nostalgici del Libro Verde o della monarchia di Re Idris, schegge dell’internazionale islamista o le bande e i gruppi che gestiscono il traffico di carne umana nel Paese.

Se l’emergenza profughi interna successiva alla caduta di Gheddafi sembra rientrata almeno in parte (la vicina Tunisia mostra ormai insofferenza nella gestione dei campi profughi di confine), la Libia continua e continuerà ad essere l’imbuto e la piattaforma di lancio dei grandi flussi intrafricani che puntano all’Europa via Italia. Quelle direttrici migratorie che da Agadez in Niger, dal campo profughi di Dadaab in Kenya (il più grande del mondo, mezzo milione di persone), dalla Siria e dall’Egitto, raccolgono le grandi masse di disperati e profughi provenienti dall’Africa centrale e dal Medio Oriente, molti dei quali ritroviamo poi nei campi libici come Zliten, pronti a mettersi in viaggio verso Lampedusa.

Se il Governo libico non sarà sostenuto dai Paesi occidentali nella sua azione di controllo delle frontiere e di contrasto dei trafficanti di uomini, come ha chiesto a più riprese Zidan, non potrà neppure garantire la sicurezza dei profughi o contenere la pressione dei "migranti economici" verso l’Europa. Il premier libico quest’anno ha incontrato il presidente del consiglio Letta, il presidente della Repubblica Napolitano, altri leader europei, il presidente della Ue Barroso, il segretario generale della Nato Rasmussen, facendo a tutti la stessa richiesta. Quando Gheddafi venne in visita a Roma, a minacciare l’invasione dell’Europa, rispondemmo a "Cane pazzo" confermando un accordo che alcuni hanno defito capestro. Oggi non si capisce perché dovremmo lasciare inascoltate le richieste che ci vengono da Zidan.

L’Alto Rappresentante per la politica estera e di difesa della Ue, Lady Ashton, fu assai tempestiva quando decise di aprire una delegazione europea in Libia a ridosso della caduta di Gheddafi, ma le mosse successive di Bruxelles non si sono rivelate all’altezza delle aspettative. La missione "EUFOR Libia", approvata dal Consiglio Europeo nel 2011, con sede a Roma, e che avrebbe dovuto essere guidata da un generale Italiano, non è mai partita. Adesso tocca a EUBAM Libia, approvata nel 2013 (previsti 30 milioni di euro), "una missione importante per la Libia e l’intera regione, ma anche per la sicurezza delle frontiere della Ue, secondo Ashton, "che risponde a una richiesta diretta dei nostri partner libici". Ma siamo ancora alla fase della selezione del personale, come dimostrano le vacancy disponibili online.

Ricapitolando: la "regionalizzazione" dell’Europa, le Primavere Arabe, la "politica estera" della Ue, sono tre elementi critici che mettono a dura prova l’auspicabile gestione condivisa delle crisi migratorie nel Mediterraneo. Per cui bene ha fatto il premier Letta a imprimere un’accelerazione unilaterale alla piena operatività dei sistemi comuni di sorveglianza e salvataggio, controllo e cooperazione comunitaria, previsti dalla agenzia FRONTEX o da EUROSUR per la primavera del 2014. L’Italia è quindi pronta a schierare un dispositivo navale e aereo tra la Libia e Lampedusa per soccorrere i profughi ed evitare che si ripetano altre tragedie del mare. "Sarà una iniziativa costosa," ha avvertito Letta, "perché saranno triplicate navi e aerei attualmente in uso", ma, ha aggiunto il premier, "si tratta di una iniziativa indispensabile per affrontare l’emergenza".

Altri risultati si potrebbero ottenere attraverso una maggiore cooperazione tra gli Stati dell’Europa meridionale. Nei giorni scorsi le operazioni congiunte di salvataggio fra Italia e Malta sembrano aver funzionato meglio che in passato. Immaginare di sostenere l’azione dell’Italia inviando un team RABIT (Rapid border intervention teams) a Lampedusa, composto da esperti e forze miste di frontiera italiane, spagnole, greche, maltesi, cipriote, sarebbe l’occasione per testare sul campo organismi di "pronto intervento" di cui l’Europa si è già dotata ma che per troppo tempo sono rimasti alla fase delle esercitazioni di scenario, come quelle svolte negli anni scorsi in Portogallo o sulla "Balkan Route".

Il passo successivo del Governo italiano – cartina al tornasole della nostra autorevolezza a livello europeo e internazionale – dovrebbe essere quello di favorire un’azione congiunta di politica estera e sicurezza comune tra i Paesi della "Finis Europae", sul modello di quanto è già avvenuto in Europa centro-orientale con la costituzione del "Gruppo di Visegrad" (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia). Tirare le fila del Vertice di Nicosia del 19 Aprile 2011, a cui parteciparono Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Malta, facendo dell’agenda libica il primo punto di una strategia più ampia che coinvolga anche il resto del Nord Africa e il Vicino Oriente, è quello che serve nei prossimi mesi.

Allargare il tiro, cercando di coinvolgere nella partita anche la Turchia di Erdogan, rafforzerebbe l’iniziativa dell’Europa del Sud, rilanciando in modo competitivo immagine e sostanza dell’azione politica intrapresa dall’Italia. Bisogna quindi sostenere il Nation Building libico, proteggere le rotte energetiche strategiche per il fabbisogno europeo (il Greenstream, il più lungo gasdotto realizzato nel Mediterraneo), e gestire in modo finalmente più collaborativo i fenomeni migratori senza subirli com’è avvenuto fino ad oggi. Senza altre morti, disperazione, dolori, lutti. O perlomeno riducendo il danno.