Quel che resta del ’77

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Quel che resta del ’77

11 Agosto 2007

Come i giornali di questi mesi ci hanno ampiamente ricordato, quest’anno ricorre il trentennale del “mitico” 1977, su cui si sono diffusi diversi saggi monografici, a partire dell’omonimo libro firmato da Lucia Annunziata fino al recente Avevo vent’anni di Enrico Franceschini, corrispondente da Londra di Repubblica. Entrare nel merito delle varie analisi che sono state proposte per interpretare un fenomeno complesso come quello dei movimenti sorti dopo la contestazione studentesca non sarebbe agevole negli angusti spazi di un articolo dell’editoria quotidiana, ma un dato credo risalti in modo evidente agli occhi di qualsiasi osservatore: i protagonisti di quegli anni, coloro che allora erano attestati sul versante della contestazione sono oggi i più autorevoli (e potenti) giornalisti del nostro paese. Cosa significa questo? Certamente che la “qualità” intellettuale di quei movimenti era molto elevata e chi li animava aveva notevoli doti, anche in termini di energie personali e volontà di affermazione, ben lungi dall’eclissarsi insieme ai nobili propositi di una stagione in cui il “realismo politico” non era certo di moda. Ma forse significa anche altro.

In un paese che, nonostante tutta la retorica che viene messa in campo su questi argomenti, ancora oggi ha una bassissima capacità di premiare la meritocrazia e di agevolare la mobilità sociale, tutto ciò vuole dire anche che queste figure venivano dal mondo del privilegio e, quasi non avessero nulla da perdere, avevano comunque garantito dalla propria famiglia un inserimento sociale di prestigio: è il caso di ricordare ancora un volta il Pasolini che, per ragioni “classiste”, dichiarava di parteggiare per i poliziotti che manganellavano gli studenti, in quanto a suo dire – ed era certamente vero – lì stava il proletariato, mentre gli studenti erano i figli della borghesia cittadina, in un’Italia in cui l’università non era ancora un fenomeno di massa? A ben vedere però non è neppure questo il punto, nel senso che una considerazione giocata in questi termini risulta (ed è) sociologicamente banale. Il fatto decisivo è invece che quella generazione scelse – potendolo fare – il mondo dei media in luogo della carriera politica strictu sensu. Questo è la chiave di volta che, in definitiva, si riflette nella stessa polemica Fassino-Mieli di qualche settimana. Il maggior merito del movimento del ’77 certamente è stato quello d’aver capito che il sistema massmediatico, in futuro, avrebbe avuto molto più potere dell’establishment politico tradizionale, consapevolezza ben sintetizzata dalle celeberrime parole di McLuhan: “il mezzo è il fine”. In definitiva nel ’77 è nata una nuova articolazione della classe dirigente del nostro paese, avvertita del fatto che fare informazione e comunicazione sarebbe stata la funzione strategica delle società complesse, o post-industriali se si preferisce. Nel Mieli che “strapazza” Fassino risuona la contestazione del 18 febbraio 1977 dei giovani della Sapienza nei confronti di Luciano Lama, il senso di superiorità di chi sa d’aver compreso in anticipo nei confronti di chi rappresenta una retroguardia, che peraltro è parte di un sistema politico che, non a caso, non dimostra alcuna capacità di autoriforma.

Esiste un passo di un saggio scritto nel 1969 da un ormai dimenticato Gianfranco Miglio a proposito dall’università italiana che dice delle cose di una lucidità strabiliante in ordine ai leader della contestazione studentesca e alla loro capacità di competizione per il potere: “I giovani più consapevoli di esser destinati nella vita ad un ruolo dominante – per estrazione sociale o per dotazione naturale – che un tempo trovavano nell’Università la riservata palestra ed insieme il contrassegno del proprio privilegio, (…) reagiscono al fantasma di un comune destino di ‘integrazione’ anticipando la propria posizione egemonica ed assumendo, prima di tutto entro e nei confronti della restante popolazione scolastica, la fisionomia di una vera e propria ‘classe politica’ in miniatura”. Cos’altro aggiungere?

C’è ancora qualcuno che è convinto che il ’68 e dintorni siano stati delle battaglie ideali dei “senza potere”, di chi non voleva ritagliarsi un posto in società ma ambiva a cambiarla affinché tutti potessero trovare una propria soddisfacente collocazione? Veramente vogliamo credere che quegli sforzi erano figli di una disinteressata generosità da parte di chi si diceva quasi allergico al potere? Le disamine recenti e le polemiche giornalistiche, se non altro, ci possono aiutare a superare l’ingenuità con cui si è spesso guardato ad un momento assolutamente cruciale della storia recente del nostro paese. A scanso di equivoci è opportuno precisare che, insieme allo “smascheramento” (per usare un termine in voga allora) delle logiche di fondo di quanto in predicato, le considerazioni proposte vogliono essere un riconoscimento nei confronti dei protagonisti della contestazione, da cui ora però ci aspettiamo che facciano di più per innovare questo paese, insieme alla sua mentalità, cosa ancor più urgente oggi di allora.