E’ permesso immaginare qualcosa di più liberale della democrazia?
20 Agosto 2007
Il professor Dino Cofrancesco coglie l’occasione della recente pubblicazione
di una mia conferenza tenuta qualche mese fa a Torino per il Cidas (e ora
pubblicata su “Nuova Storia Contemporanea”) per aprire una riflessione sul
rapporto tra liberalismo e democrazia, che in quel testo io vedo come altamente
conflittuale ed egli pone, invece, in termini di reciproca integrazione. Credo
che la questione meriti di essere ripresa, ben al di là delle tesi da me difese
in quella circostanza, perché è del tutto chiaro che la relazione tra libertà e
governo popolare è al cuore del dibattito teorico contemporaneo.
Sul piano storico, e fattuale, le cose sono assai complesse: e quindi – in
un certo senso – si può legittimamente dire tutto e il contrario. La tradizione
liberale e libertaria americana, ad esempio, ha sempre intrecciato libertà e
democrazia: da Thomas Jefferson all’età jacksoniana, i più radicali fautori
dell’individualismo liberale sono stati anche i più accesi sostenitori della
democrazia politica. È anche vero, però, che in Europa le cose sono andate
molto diversamente, e che da noi le due tradizioni (quella liberale e quella
democratica) si sono lungamente opposte e contrastate.
Il caso di Benjamin Constant evocato da Cofrancesco stesso è al riguardo
assai interessante e nell’occasione mi piace riconoscere come in Italia una
nuova attenzione a questo grandissimo studioso di fine Settecento e inizio
Ottocento si debba proprio ad un gruppo di studiosi e ad una “scuola”
all’interno della quale il professor Cofrancesco copre una posizione di rilievo.
Ma è esattamente in Constant, studioso nel quale liberalismo e
costituzionalismo hanno tra loro un rapporto assai stretto, che emerge con evidenza
la netta tensione tra liberalismo e democrazia.
Nei Principi di politica del 1806
(l’opus magnum inedito da cui egli
per anni attinse molte delle successive pubblicazioni) Constant parla di una
“divisione naturale degli abitanti di uno stesso territorio in due categorie”,
i proprietari e i non proprietari, e afferma che “soltanto la proprietà rende
gli uomini capaci di esercitare i diritti politici. Soltanto i proprietari,
dunque, possono essere cittadini”.
Come numerosi autori democratici, egli non si limita quindi a riconoscere
una serie di vincoli costituzionali alla volontà generale e anche alla volontà dei
più (e qui Cofrancesco ha certo ragione quando rileva che, nei fatti, i fautori
della democrazia sono spesso poco disposti ad attribuire al popolo una piena
sovranità: la democrazia, insomma, vive solo in forme ipocrite, definisce i
propri stessi limiti e denuncia da sé i propri paradossi). Constant però fa ben
altro, dal momento che delinea uno spazio politico riservato “ai ricchi” – uso
qui il linguaggio dei suoi critici – e finisce per offrire una legittimazione
dottrinale a quel voto censitario che nel corso dell’Ottocento sarò spesso
appoggiato dai liberali e avversato, appunto, dai democratici.
D’altra parte, Constant era persuaso che se si fosse introdotto il
suffragio universale i non proprietari avrebbero espropriato i proprietari. Quella
del suffragio ristretto fu una buona scelta? Forse quell’opzione – che in
qualche modo ritorna nell’ultimo Hayek, che in Law, Legislation and Liberty immaginava di togliere il voto a
dipendenti pubblici, disoccupati e pensionati
– apparve saggia a breve termine, ma certo consegnò ai teorici della
democrazia un’arma potentissima, dato che in quel modo il liberalismo finì per
sostenere istituzioni a cui tutti dovevano obbedire e da cui però alcuni erano
esclusi. Constant aveva sicuramente ragione quando affermava che la formula “un
uomo, un voto” offre l’opportunità per una redistribuzione da chi ha a chi non
ha, ma la risposta che egli diede – insieme a larga parte del liberalismo del
tempo – non fu all’altezza dei problemi.
È però importante comprendere che quel modello di rappresentanza senza
suffragio universale non era (non soltanto) il massimo di democrazia che quel
tempo in cui l’analfabetismo era ancora assai elevato poteva concedersi, ma esso
intese anche rappresentare un ben più ambizioso, ancorché fallito, tentativo di
“privatizzare” le istituzioni, sforzandosi di far coincidere quanti prendono le
decisioni politiche e quanti ne sopportano il costo pagando le imposte.
Il nodo teorico cruciale, ad ogni modo, sta altrove.
Per una parte della tradizione liberale (talora detta “libertaria”, altre
volte “liberale classica”, e non di rado etichettata in modo ancora diverso) la
questione decisiva è infatti da riconoscere nel tipo di legame che lega il
singolo e le istituzioni. Per liberali classici e libertari, la democrazia può
essere un ottimo modo per affrontare il problema delle scelte collettive
all’interno di istituzioni articolate, ma a condizione che il rapporto tra
persona e istituzioni sia di tipo volontario. In John Locke una formula
ricorrente, e altamente indicativa del suo modo di intendere la questione, è la
seguente: by consent (per consenso).
Per liberali classici e libertari, allora, a porre problemi non è tanto la
democrazia, ma lo Stato (e quindi anche lo Stato democratico).
Nel suo articolo Cofrancesco non pare condividere l’idea secondo cui il
totalitarismo novecentesco sarebbe addirittura impensabile senza l’avvento
della democrazia moderna. Si tratta di una tesi a difesa della quale molti
autori hanno dato contributi di rilievo fin dai tempi del fondamentale volume
del 1952 su The Origins of Totalitarian
Democracy, scritto dallo storico israeliano Jacob Talmon.
Ma in realtà, nel prendere nettamente le distanze dalla democrazia à la Rousseau e dal giacobinismo,
Cofrancesco mostra di essere in qualche modo consonante con le tesi di chi ha
visto proprio nel pensatore ginevrino, vero fondatore della teoria democratica
moderna, l’origine di tante delle mostruosità che hanno dominato l’età
contemporanea. D’altro canto, se Jean-Jacques Rousseau è il padre della democrazia
e il nonno del socialismo (si veda, al riguardo, il celebre discorso
sull’origine delle disuguaglianze, che contiene uno dei più duri attacchi al
diritto di proprietà), è anche difficile non riconoscere in lui uno dei maggiori
antecedenti intellettuali della violenza che si è scatenata in Europa nel corso
del ventesimo secolo.
Ma non è solo una questione di alberi geneaologici e filiazioni dottrinali.
Dando vita ad un sovrano collettivo e impersonale, la democrazia moderna ha di
fatto permesso e favorito quell’espansione dei poteri pubblici che tutti i
liberali classici e i libertari avversano, e che è un tratto caratteristico dei
sistemi sociali dell’ultimo secolo.
Non mi pare, d’altra parte, che la sottolineatura di questa tensione tra
liberalismo e democrazia stia a cuore solo ai libertari. Un noto giornalista americano,
Fareed Zakaria, prima in un lungo e fortunato articolo apparso su “Foreign
Affairs” nel 1997 e poi in un volume intitolato The Future of Freedom: Illiberal Democracy At Home and Abroad, ha
proprio voluto evidenziare come l’Occidente sia stato portato alla civiltà non
tanto dal suffragio universale, ma da una diffusa cultura dei diritti. Qualcosa
di simile afferma anche l’economista Deepak Lal, anch’egli certamente non
libertario, secondo il quale la crescita economica è connessa alle istituzioni,
ma soprattutto dipende da un ordine giuridico che protegga proprietà e diritti
fondamentali molto più che dalla semplice esistenza di un Parlamento eletto dal
popolo. (E forse non è casuale che sia Zakaria che Lal provengano dal
sub-continente indiano, dove la democrazia è assai più consolidata del
liberalismo: e le conseguenze si vedono.)
Ovviamente, la storia del ventesimo secolo ha visto scontrarsi prima i
fascismi e le democrazie anglosassoni, e poi – durante la Guerra fredda – il
blocco socialista e quello capitalista, al cui interno la quasi totalità dei
paesi era retta da istituzioni democratiche. Non c’è dubbio che siamo stati
quindi abituati ad identificare liberalismo e democrazia. È egualmente vero
che, per ragioni storiche evidenti, un liberale si trova in genere più a suo
agio nelle democrazie nordamericane ed europee che altrove. Ma questo non ha
nulla a che fare con la presente discussione.
Perché la controversia su “libertà e democrazia” verte in fondo sul fatto
se si debbano tenere distinti – come faceva lo stesso Constant – la tutela dei
diritti e il problema delle “garanzie”, che la democrazia affronta attraverso
la “collettivizzazione della sovranità” (nella linea che conduce da Jean Bodin
a Thomas Hobbes, e da quest’ultimo a Rousseau) mentre altri autori – specie
all’interno del pensiero liberale classico – ritengono di risolvere
diversamente.
Non si tratta quindi di opporre libertà individuale e impegno civico,
perché certamente esiste una forma di “militanza” liberale che è del tutto
estranea alle questioni della democrazia rappresentativa. Si tratta invece di
chiedersi se hanno davvero ragione quanti ritengono che la democrazia
occidentale rappresenti la fine della Storia (e con essa il compimento della
sovranità), oppure se il futuro rimanga aperto e se altre soluzioni – più
%0Aliberali, rispettose dei diritti dei singoli, disposte ad accettare concorrenza
e libera scelta – possano essere immaginate.