Lavoro, la sfida di Alfano a Renzi

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Lavoro, la sfida di Alfano a Renzi

16 Dicembre 2013

Bene ha fatto Angelino Alfano a giocare in contropiede con Matteo Renzi sul tema del lavoro, “siamo tutti curiosi di sapere”, ha detto il vicepremier a ridosso della assemblea nazionale democratica, “se Renzi dirà in inglese le tesi della Cgil o dirà in inglese le tesi riformatrici”. Per adesso non abbiamo ancora capito che tipo di inglese parli Renzi.

Da un lato ci ha spiegato che “non si può discutere per dieci anni sull’articolo 18, mentre si dimezza l’attrattività degli investimenti esteri”, che va bene, siamo tutti pronti a riaprirla la discussione sull’articolo 18, ma nello stesso tempo abbiamo appreso che “dobbiamo dire che tutti coloro che perdono il posto di lavoro hanno diritto a un sussidio universale”, che va meno bene, perché il salario minimo è “costosissimo e deresponsabilizzante”, come ha sottolineato Maurizio Sacconi (Ncd), ricordando a Renzi che in Germania il salario minimo riguarda chi lavora e non i disoccupati.

Sempre Renzi ha detto ai suoi che “entro un mese presentare un progetto di legge per semplificare le regole del lavoro e degli ammortizzatori sociali” e che “il lavoro non va solo difeso ma va creato”. Anche su questo punto Angelino Alfano lo aveva già anticipato alla Convention romana di Ncd spiegando che “bisogna semplificare le regole per le assunzioni” e “restituire il soffio etico della comunità d’impresa”.

Il discorso di Alfano si era articolato su alcuni concetti chiave: il patriottismo economico, l’economia sociale di mercato, la battaglia per un fisco più giusto (togliere l’Irap, “l’imposta rapina”), le comunità che offrano opportunità a chi investe e a chi lavora. Ricette che contengono i frutti di quella riflessione emersa in ambiente conservatore per superare la diatriba tra neostatalismo e post-thatcherismo, tra capitalismo sregolato e turbostatalismo, mettendo al centro valori come la famiglia, l’istruzione, il lavoro. Su tutto, il pilastro della sussidiarietà che sposta l’asse delle politiche economiche dal centro alle periferie. “Vedremo se la sinistra italiana metterà facce nuove e pensiero nuovo”, il senso della sfida lanciata dal leader di Ncd, “se sarà così in 12 mesi cambieremo il mercato del lavoro e dell’Italia”.  

In realtà non abbiamo ancora scoperto se Renzi ci fa o ci è, se intende fare sul serio oppure se, come ha detto Alfano, “siamo su Scherzi a parte”. Al di là del promesso “Job Act”, Matteo continua a oscillare tra il liberismo spinto e un po’ retrò di Algebris, le tesi di Gutfeld sui “contratti stabili senza articolo 18” o quelle del nuovo responsabile economico del partito, Taddei, il civatiano che alla prima Leopolda proponeva di tassare gli “atipici” anticipando a modo suo i guasti introdotti dalla riforma Fornero.

Soprattutto non è chiaro se Renzi su lavoro, fisco, pensioni, affronterà di petto il blocco conservatore che fa capo alla Cgil (“Non è un reato dire che vogliamo cambiare il sindacato, anche la Cgil!”, gridava nel microfono all’ultima Leopolda) oppure intende farci i conti morbidamente, sapendo di quanto consenso godano ancora le tesi corporative nel partito che ha rinunciato alle ricette del professor Ichino. Vale la pena ricordare che incontrando Landini, Renzi ha aperto alle richieste di Fiom sulla democrazia nel sindacato, con tanto di Twitter soddisfatto della Camusso. A Landini, fa notare Massimo Franchi, non devono essere dispiaciute le frasi del neosegretario sul dare diritti ‘a chi adesso non li ha’ ma lasciandoli ‘a chi li ha’, l’obamismo d’antan sul “ritorno al manifatturiero”, le polemiche sull’Imu che il già citato Taddei ha proposto di reintrodurre come forma dichiarata di patrimoniale.

Esaurita la retorica giovanilista utile a vincere le primarie, per quanto altro tempo Renzi si limiterà a ripeterci che all’Italia serve tagliare un miliardo di costi della politica dimenticando che questa, pur giusta, battaglia rappresenta solo lo 0,12 per cento di risparmio sulla nostra spesa pubblica? Riuscirà il segretario del Pd, come ha scritto Luca Ricolfi, a sbarazzarsi del “gregarismo”, del “conformismo e della attitudine a fiutare l’aria per poi correre tutti nella stessa direzione” che caratterizza la cultura di sinistra italiana? O come chiede Bill Emmott sull’Espresso a “diventare un liberalizzatore, sbloccando i mercati e riconoscendo che soltanto le imprese private oggi possono creare posti di lavoro in Italia?”.

Il problema è che a differenza della rivoluzione blairiana oggi a Renzi non manca solo un Gordon Brown o quel retroterra culturale che da “Marxism Today” ai think tank come Demos e Ippr seppe riconiugare il valore ortodosso della eguaglianza con quello post-revisionista della “autonomia personale”; l’impressione è che il segretario abbia una percezione sbiadita di quali blocchi sociali lo rappresentino materialmente al di là dei primi positivi sondaggi: “oggi la rottura di un ciclo è avvenuta senza traumi, come sbocco necessario per fare qualcosa di diverso o per offrire un passatempo al Paese stremato” dice al Foglio un sarcastico Rino Formica. 

Del resto se è vero che tra i meriti indiscutibili del decennio d’oro di Tony ci furono il costante aumento del Pil e la riduzione della disoccupazione, è anche vero che la Gran Bretagna della City dove si è acquartierata Algebris ha pagato un conto salatissimo dopo il blairismo, scivolando nella deflazione, con un nuovo picco nella richiesta di sussidi e una finanza pubblica semidisastrata, colpa  dell’indebitamento e della spesa condotta negli anni precedenti al 2007.

Alfano agli Studios ha evocato questa idea di Patria dove l’interesse nazionale, la battaglia fiscale, l’attenzione alle comunità, la valorizzazione dello spirito d’intrapresa privata, danno la cifra di un ideale politico pronto a tradursi in programma economico, programma su cui si potrebbe alzare un altro piano dell’edificio chiamato larghe intese più coese: deregolando la legge Fornero, riducendo il cuneo fiscale e offrendo servizi migliori ai disoccupati. Ma Renzi?

Nel ’94, durante il celebre discorso di Blackpool, Tony Blair scelse di rottamare la “Clause IV”, quel punto dello Statuto laburista che dalla fine della prima Guerra mondiale aveva garantito ai “lavoratori manuali e dell’ingegno il pieno godimento e la più giusta distribuzione dei frutti della propria fatica, sulla base della proprietà comune dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio”. Alla assemblea nazionale del Pd non abbiamo ascoltato da Renzi tesi altrettanto dirompenti. Il segretario si è dato un mese di tempo per presentare il suo piano per il lavoro ma l’orologio scorre in fretta e Renzi presto dovrà fare delle scelte di campo, pena archiviare come retorica anche quella sualla "rottamazione".