Arabia Saudita rompe relazioni diplomatiche con Iran
03 Gennaio 2016
Il ministero degli esteri dell’Arabia Saudita domenica ha annunciato di aver rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran, chiedendo a tutti i diplomatici iraniani di lasciare il Paese entro 48 ore. Lo dice l’agenzia Xinhua. L’espulsione dei diplomatici iraniani arriva dopo che a Teheran l’ambasciata saudita era stata presa di mira da un attacco in risposta alla esecuzione del religioso Nimr al Nimr. I sauditi hanno anche deciso di evacuare il loro personale diplomatico a Teheran, mentre le autorità iraniane hanno cambiato il nome della via dove si trova la ambasciata di Riad, intitolandola "Ayatollah Nimr Baqir al-Nimr".
L’esecuzione avvenuta in Arabia Saudita dell’influente chierico sciita, insieme ad altri 47 prigionieri (compresi molti detenuti appartenenti ad Al Qaeda e almeno altri tre di fede sciita), era destinata a inasprire le relazioni già infuocate tra Riad e Teheran, che già sconvolgono il Medio Oriente con effetti destabilizzanti in Paesi come lo Yemen e la Siria. Il cinquantenne al-Nimr non aveva mai negato le accuse politiche che gli venivano mosse, ma nello stesso tempo aveva sempre detto di non aver trasportato armi chimiche, rinnegando le accuse specifiche alla sicurezza nazionale saudita.
I turbanti iraniani hanno subito condannato l’esecuzione di al Nimr, che la monarchia saudita giustifica invece come un passo nella lotta al terrorismo condotta a livello interno. Da qui la reazione iraniana, con la folla inferocita che ha preso d’assalto la ambasciata saudita a Teheran, incendiando una parte dell’edificio, prima che la polizia intervenisse per disperdere la folla ed eseguire qualche arresto. Intanto l’ambasciatore veniva convocato presso il ministero degli esteri iraniano e il presidente del parlamento, Larijani, affermava che l’esecuzione provocherà un “vortice” in Casa Saud.
A sua volta, il ministero degli esteri saudita ha convocato l’inviato di Teheran criticando le reazioni degli ayatollah e definendo la reazione iraniana “una palese interferenza” negli affari interni della monarchia. Sullo sfondo le critiche rivolte sempre dai sauditi alle potenze occidentali, questi ultimi colpevoli, agli occhi di Riad, di aver stretto un accordo con l’Iran (allentamento delle sanzioni in cambio di limiti al programma nucleare) destinato tra le altre cose a inondare di greggio (iraniano) un mercato già in sovrapproduzione, che sauditi e Opec stentano a controllare.
Come pure l’esecuzione è destinata a rendere più difficoltose le relazioni tra Riad e Baghdad, con quel governo a indirizzo sciita iracheno che aveva appena dato via libera, dopo 25 anni, alla riapertura della ambasciata saudita nella capitale dell’Irak. Si registrano proteste e manifestazioni contro l’esecuzione anche nel Bahrain, al confine con l’Arabia saudita orientale (terra che ha dato i natali ad al-Nimr) fino all’India settentrionale.
Proteste arrivano dal Libano, dove i religiosi sciiti hanno definito l’esecuzione "un grave errore che avrebbe potuto essere evitato con un’amnistia", mentre per l’Hezbollah, il gruppo terrorista filo-iraniano, quello di al-Nimr è un “assassinio”, un “crimine”, sangue di cui sono macchiate le mani degli americani che avrebbero la "responsabilità morale e diretta” della esecuzione.
In Europa, il ministero degli esteri tedesco ha fatto sapere che l’esecuzione "rafforza le nostre preoccupazioni sulle crescenti tensioni e sulle fratture che si vanno approfondendo nella regione", mentre il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, John Kirby, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sono "particolarmente preoccupati" dal fatto che la morte di al-Nimr possa "esacerbare le tensioni settarie proprio in un momento in cui andrebbero ridimensionate”, chiedendo ai sauditi procedimenti giudiziari trasparenti e il rispetto delle manifestazioni di dissenso interne.
In realtà, la morte di al-Nimr va letta nel contesto della stretta alle misure antiterrorismo che i sauditi stanno portando avanti ormai da un anno, dopo le primavere arabe che avevano destabilizzato i regimi dell’area, facendo temere alla monarchia wahabbita di fare anch’essa la fine di altre dittature o autocrazie locali. Dal 2011, i sauditi hanno inviato le loro truppe nella parte orientale del regno per stroncare le proteste della componente della popolazione sciita.
Il gran mufti Sheikh Abdulaziz Al Sheikh ieri ha difeso le esecuzioni, giudicandole “misericordiose” e in linea con la legge coranica. Nel wahabismo saudita la pena di morte viene approvata anche grazie a una delle interpretazioni più letterali e rigoriste del Corano che s’incontrano nel mondo islamico. A chi accusava i sauditi di essere come l’Isis, cioè di decapitare i propri nemici, la monarchia ha risposto ricordando che in Arabia saudita esiste un sistema giudiziario che prevede anche il processo di appello.
La tv saudita ha invece messo in evidenza come proprio le esecuzioni mostrano che la monarchia è sempre più intransigente contro il terrorismo islamista, come è stato chiesto dalla comunità internazionale. Ora è possibile che arrivi una vendetta di Al Qaeda, della sua costola nella penisola arabica, che già il mese scorso aveva minacciato i sauditi di ritorsioni se avessero proceduto con le esecuzioni. Tra i giustiziati infatti c’erano anche ideologi e membri della “base”, arrestati dopo l’11 Settembre mentre organizzavano attacchi mortali in Arabia Saudita.
Secondo le associazioni umanitarie e i gruppi per i diritti umani, nel 2015 in Arabia Saudita sono state effettuate 157 esecuzioni e il numero di decapitazioni nel regno ha raggiunto il livello più alto negli ultimi due decenni.