
Sala, Trump e i migranti

15 Novembre 2016
Non si fa che parlare di muri. C’è il muro – barriera – che il presidente ungherese Orbán ha fatto erigere per difendere la sua gente dall’immigrazione selvaggia. C’è il muro che l’Inghilterra, con il consenso della Francia, sta costruendo come protezione degli accessi al tunnel sottomarino del Canale della Manica. C’è il Muro del Pianto, vittima di una vicenda talmente paradossale, che, siamo certi, presto troveremo raccontata in una paginata di Topolino nella sezione “qual è il colmo per…” (chi nega le radici ebraiche e cristiane di Gerusalemme). E poi c’è il muro che ha promesso Trump. Quello più cattivo di tutti, secondo alcuni.
La stampa racconta che tutti questi muri sono cementati dall’odio. Dalla retorica sull’odio, aggiungiamo noi. Quella retorica che si abbevera alla sorgente del ‘mito della tolleranza’. L’ultima vittima di questa retorica è il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che di fronte a un episodio di violenza (una sparatoria con morto nei pressi di piazzale Loreto) si spaventa e invoca l’esercito in armi. A noi sembra effetto di cattiva coscienza: se al primo segnale di esistenza di bande criminali tra gli immigrati chiama addirittura l’esercito, vuol dire che era consapevole di quanto quella retorica fosse falsa e pericolosa. È chiaro che oggi teme che il fenomeno della criminalità di importazione gli esploda tra le mani come una bomba a scoppio ritardato.
La vittoria di Trump (ma anche, in piccolo, la paura di Sala e la richiesta di avere l’esercito a Milano) è anche conseguenza del modo in cui viene affrontata a sinistra la questione immigrati. La promessa del nuovo presidente Usa di mettere fine ad un’accoglienza incontrollabile, perché caotica, è visto esattamente come qualcosa d’‘intollerabile’. Perché esiste oggi una sola dimensione della tolleranza, ed è quella che non accetta critiche ad un diverso modo di concepire la realtà. In Europa non smettiamo di pagarne le amare conseguenze, e da qualche giorno i quotidiani internazionali si domandano come si evolveranno le cose anche rispetto alla ‘rivoluzione Trump’. L’idea di Viktor Orbán di una soluzione à la australiana alla crisi dei migranti prende sempre più quota in Europa – l’Australia ha norme estremamente severe verso i migranti e richiedenti asilo che vengono rinchiusi per mesi in centri di detenzione fuori dal territorio australiano prima di essere accettati o cacciati via.
Persino dal governo tedesco sono arrivati segnali in tal senso. Una portavoce del ministero dell’Interno tedesco ha preconizzato, infatti, la possibilità di fermare in mare i migranti e di rispedirli sulle coste africane, in modo da svolgere lì le procedure per un eventuale asilo nell’Unione. Il dato di fatto, oggi, è che le “porte aperte” della Merkel hanno comportato una accelerazione di quei meccanismi di difesa rispetto ad una trasformazione della società e della cultura tedesca in chiave “multiculturale” (oggi il partito anti-immigrazione in Germania, l’AFD, è protagonista indiscusso della scena politica), e, soprattutto, hanno sollevato ansia in un’Europa sempre più spaventata dai migranti. Vedi Brexit.
L’Europa aveva scelto di giocare la carta immigrati nel tentativo disperato di compensare il gap demografico e gli effetti economici ineluttabili dopo la crisi economica. Avevano pensato che una nuova massa di contribuenti potesse salvare i sistemi pensionistici e sanitari. E il mantra del ‘multikulti’, nel mito della omogeneità, avrebbe dovuto evitare, invece, il fallimento della sicurezza. Ma così non è stato. Germania, Francia, Svezia, per esempio, sono paesi cambiati radicalmente dal crescente flusso di una popolazione musulmana. Ai “nativi locali” è stato comandato di non opporre resistenza alle abitudini religiose e culturali importate. E, ad ogni tentativo di obiezione, è sempre stata proposta una macchina mediatica del fango pronta a tacciare di “razzismo” ogni opposizione, espulsa dal dibattito pubblico con il pretesto dell’intolleranza.
Muoversi verso paesi ad alto reddito è quasi una legge della natura. E fino a quando il numero di nascite e morti surclassa quello dei migranti, si tratta di qualcosa di estremamente vantaggioso. Ma nel momento in cui l’immigrazione diventa il maggiore contributo, se non l’unico, alla crescita, o anche solo al mantenimento, demografici, non si può parlare più di processo evolutivo, ma di un’involuzione anticipata da una rivoluzione bella e buona. È quella che ha messo in moto l’Unione. Perché il numero di migranti è enorme e la paura – data la loro provenienza – è direttamente proporzionata al processo prepotente di radicalizzazione islamica. Processo che ha trovato terreno fertile vista la debolezza di ogni Stato europeo.
L’Europa del 2016 è attraversata quotidianamente da tensioni razziali e religiose perché la rivoluzione europea sui migranti ha imposto una pazza “islamofilia” e la conseguente criminalizzazione di quanti osano avanzare critiche. Dove dovrebbe portarci questa rivoluzione? All’islamizzazione del Continente? La fine dell’emergenza sulla rotta dei Balcani potrebbe spiegare la cosiddetta sconfitta ungherese sulla modifica alla Costituzione. Ma è chiaro che, se il numero di migranti sarà come quello del 2015, Orbán diventerà inarrestabile in patria e nel resto d’Europa. Altro che islamizzazione…