Trump non è Berlusconi (e se il Don nomina la Palin ambasciatore a Roma al Pd gli prende un colpo)

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Trump non è Berlusconi (e se il Don nomina la Palin ambasciatore a Roma al Pd gli prende un colpo)

16 Novembre 2016

Negli Stati Uniti e in Italia i democratici sono nel panico per la vittoria di Trump e tentano di esorcizzarla etichettando il Don come “populista”, equivalente di demagogo, incompetente, nazionalista, fascista, razzista. Come ha osservato sul Sole Luigi Zingales, uno dei pochi giornalisti fuori dal coro, la debolezza del Pd americano è stata di credere che l’America fosse una monarchia e avrebbe votato Hillary perché era la moglie di Bill Clinton. L’altra grande debolezza del democratici è stata ignorare  le sofferenze della middle class e degli operai, dei “deplorevoli” come li ha chiamati con disprezzo Hillary. I “deplorevoli” hanno votato e sostenuto il candidato che, rivolgendosi agli uomini e alle donne dimenticate, impoverite dal liberismo della globalizzazione, ha detto: “I will be your voice” (“sarò la vostra voce”).

In Italia il Pd reagisce come con Brexit, dicendo che Trump è stato votato dal “popolo bue”, dai poveracci, “gli sdentati”, come li chiama il socialista Hollande, e quando si assumono atteggiamenti del tipo ‘se  non hanno più pane, che mangino brioche’, si sa come va a finire. Trump fa parte dell’establishment (al matrimonio con Melania c’erano i Clinton), è un tycoon, un magnate esperto di media, e rappresenta l’establishment che si oppone storicamente ai liberal. Senza scomodare “Masse e potere” di Canetti, come fa Il Foglio, con Ferrara trumpista dell’ultima ora, l’abc della politica, in qualsiasi regime, è che se chi governa non si cura delle sofferenze del popolo, se ne curano gli avversari interni ed esterni. Thomas Hobbes  scrive nel Leviatano che il sovrano deve sempre preoccuparsi del benessere del popolo, perché il popolo è  il suo unico bene.

Senza popolo un sovrano non è più nessuno. Un popolo affamato è il miglior regalo che si può fare agli avversari interni o ai nemici esterni. In guerra, se il popolo ha fame, soffre, perde la fiducia nel capo e diserta. Persino Hitler si preoccupò sempre che ai tedeschi non mancasse il cibo e i bavaresi avessero sempre la birra. Per Ian Kershaw, questa è una delle ragioni per cui i tedeschi resisterono fino alla fine. Il partito democratico americano invece ha perso il senso della realtà, ha creduto bastassero i soldi per vincere e non i voti: ha giocato la carta della prima  donna presidente, dell’ambiente e del gender. ma chi se ne frega dell’ambiente se non hai i soldi per  un hamburger, non hai più casa o lavoro? Il partito repubblicano, che aveva il Congresso e il Senato anche con Obama, ha ricalibrato la macchina, come si dice negli States.

Si è liberato dei pesi morti come i Bush, che ricordano guerre odiate dagli americani,  e ha puntato su Trump. Murdoch, editore del Wall Street Journal, che ha dedicato articoli durissimi ai Clinton, lo aveva detto: alla fine saranno tutti con Trump, e così è accaduto. Trump è per il partito repubblicano ciò che era stato Obama per i democratici, un leader completamente nuovo, che ha raggiunto un elettorato nuovo, vittima della globalizzazione. Il magnate Trump è anche fisicamente l’antiObama e ha in comune molte battaglie dei repubblicani: dalla lotta contro l’aborto, a quella dell’immigrazione illegale, alla parola d’ordine law and order, è l’America profonda che ha sempre votato il “Grand Old Party”, che non è né liberal, né liberista, ma pragmatica, bada solo all’interesse americano. America first.

Trump non è Berlusconi, come sperano i vari Gianni Riotta, che vorrebbero per Trump la fine del Cav. Berlusconi nel 1994 governò pochi mesi, perché guidava una fragile coalizione di partiti: Bossi fece fallire il governo uscito dalle urne nel 1994 e Fini quello uscito dalle elezioni del 2008. Berlusconi nel ‘94 aveva un’esigua maggioranza al Senato, un presidente della repubblica ostile, la magistratura politicizzata nemica, ed è finito espulso dalla politica per una condanna per evasione fiscale. Trump ha il Congresso, il Senato, la Corte Suprema (sarà lui a nominare il successore di Antonin Scalia), l’intelligence e il Pentagono. Come si apprende da dichiarazioni su Twitter di funzionari del Dipartimento di Stato sarebbero stati uomini e donne dell’intelligence americana a consegnare le email di Hillary Clinton ad Assange. Seymour Hersh in Military to Military sulla London Review of Books del gennaio 2016 rivelò come il Pentagono e l’intelligence collaborassero da tempo con i russi in Siria e considerassero Obama prigioniero di un’idea antiquata di Guerra Fredda.

A differenza di Trump, Berlusconi non ha mai avuto dietro un movimento di piazza, gente pronta a menare le mani per lui: è l’abc  della politica, da Machiavelli a Weber. Mussolini non avrebbe mai avuto l’incarico senza la marcia su Roma, il Pci non avrebbe mai conquistato l’egemonia nelle università, nei media, nella magistratura, in ogni istituzione dello Stato, se non avesse avuto masse pronte a scendere in piazza, a picchiare, a bloccare l’Italia per il governo Tambroni e anche a fare mattanza degli avversari dopo il 25 aprile. I comunisti facevano paura, davano di fascista a chiunque non fosse dei loro ed è quella paura che ha bloccato l’Italia.

I partiti del centrodestra berlusconiano  facevano manifestazioni al chiuso, in teatri, hotel, monasteri. Berlusconi intendeva contrapporsi ai “comunisti” e quindi erano i “comunisti” ad andare in piazza, non “i moderati”, gente perbene e ordinata. Ma nei conflitti, che sono all’ordine del giorno in democrazia, i “moderati” perdono quasi sempre con chi usa la piazza per impaurire gli avversari. I post-fascisti di Fini erano spaventati dall’idea di essere scambiati per “fascisti” e imploravano l’avversario di legittimarli, che in politica è come offrire la testa al boia. Berlusconi non ha mai cercato né di costruire un network intellettuale del centrodestra, né si è curato della presenza sul territorio. Solo la Lega aveva una presenza solida sul territorio e non temeva di urlare: era l’unico partito antisistema e nessuno poteva darle di “fascista”,  perché molti militanti e leader venivano dalla Dc o da gruppi extraparlamentari.

Berlusconi non era il Caimano. Il suo popolo non si ribellò contro i giudici, come immaginava Moretti nel 2006, non fece la rivoluzione, come avrebbero fatto i comunisti, i girotondini e i piddini se un leader di sinistra fosse stato trattato come lui. Bastò la lettera a Repubblica di Veronica, una moglie gelosa e ormai lontana dal marito, il contrario di una moglie americana (vedi Hillary con Bill e il Sexygate) per gettare nello sconforto i suoi sostenitori: gli elettori di Trump se ne sono fregati dei media tutti contro Trump, delle accuse di molestie sessuali, di gaffe sulla “pussy” e anche delle accuse di evasione fiscale. Paragonare Berlusconi a Trump non ha senso, anche perché Trump ha un partito repubblicano che ritorna vincitore a Washington e si prende tutto. Trump potrebbe o sta per dare incarichi a repubblicani importanti come Rudy Giuliani, Chris Christie, Reince Preibus, Steve Bannon, che sarà consigliere alla Casa Bianca. Si parla di Sarah Palin ambasciatore a Roma e chissà quale trauma sarebbe per i renziani.

Le proteste contro Steve Bannon, fondatore e direttore di Breitbart, perché aiuta Marine Le Pen, non lasciano segno, perché ogni presidente aiuta i leader politicamente affini, vedi Obama con Renzi. Breitbart e Drudgereport sono i siti più seguiti dai repubblicani. Giuliano Ferrara se ne farà una ragione se Hillary ha perso. E’ rimasto anche lui vittima della bolla mediatica del Nyt; il Foglio si consola con Daniele Scalia per il quale questa è l’ultima vittoria dell’America bianca. C’è poi l’America di The Good Shepherd di De Niro, dove Matt Damon (James Angleton, uno dei grandi padri dell’intelligence Usa),  a un mafioso che si offre di aiutarlo per l’operazione Baia dei Porci e si allarga troppo, risponde “L’America è nostra, voi siete solo ospiti”.

De Niro ha pensato di prendersi chissà quale vendetta sull’America WASP con quella frase, ma l’America l’hanno fatta loro, i puritani che partivano dalle isole britanniche, i cuori ribelli, i fanatici religiosi, gli avventurieri, i ladri e le prostitute come i galantuomini e le pie donne. Loro hanno reso prospero, ricco e libero un continente deserto e disabitato. E si sono dati regole certe e precise per contendersi il potere politico. E’ quell’America caparbia, che lavora sodo, pianta la bandiera sull’uscio di casa, anche se è un topaia, e crede che il proprio destino dipenda da se stessi, l’America che non si arrende e può decidere di alzare la testa e di rendere ancora grande quel Paese. Noi non potremmo farlo: la grandezza non abita più qui dai tempi di Romani.