Birmania, primo incontro tra Suu Kyi e la giunta militare
27 Ottobre 2007
Dopo l’iniziale concitazione mondiale,
l’attenzione dei media sulla Birmania si è progressivamente affievolita. Ma
giornali e televisioni hanno un’attenuante: da quando la repressione è stata
sedata, con i monaci nelle prigioni o nuovamente rinchiusi nei monasteri, ben
poche notizie di rilievo sono filtrate dalla Birmania. E alle Nazioni Unite,
dove si gioca la partita delle sanzioni, continua lo stallo totale: la Cina,
come ha recentemente ribadito, è contraria a qualsiasi misura punitiva contro
%0Ail regime militare di Than Shwe.
Negli ultimi giorni, però, qualcosa è
successo. Primo: spinta dalle raccomandazioni dell’inviato delle Nazioni Unite
Gambari, la giunta ha incontrato la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi. Secondo:
Gambari, giunto ormai al termine del suo tour asiatico, dovrebbe presto fare
ritorno in Birmania. Terzo: dopo settimane di relativa calma, la polizia è
tornata a circondare massicciamente i monasteri buddisti.
L’incontro tra Suu Kyi e l’emissario
governativo Aung Kyi (incaricato da Than Shwe di tenere i rapporti con
l’opposizione) è senza dubbio la notizia di maggiore rilievo. Questi i fatti:
la donna, che il 24 ottobre ha “festeggiato” dodici anni d’arresti domiciliari,
è stata prelevata mercoledì dalla sua casa e condotta nel centro di Rangoon.
L’incontro con Aung Kyi, cominciato poco dopo mezzogiorno, è durato circa
un’ora e un quarto: al termine del colloquio – sul quale, ancora una volta,
nulla è trapelato –, il premio Nobel è stata riconsegnata alle stanze della sua
casa. Suu Kyi non ha potuto rilasciare alcuna dichiarazione: unica
testimonianza dell’incontro, un breve video mandato in onda dalla tv di Stato.
L’apertura da parte della giunta sembra
essere una sorta di teatrino ben orchestrato: quando l’inviato delle Nazione Unite,
Ibrahim Gambari, lasciò la Birmania a fine settembre, raccomandò a Than Shwe di
parlare con Suu Kyi. L’incontro di mercoledì, dunque, rientra a pieno titolo nelle
misure adottate dal governo per tenere buona la comunità internazionale. Ma
sono davvero in pochi ad illudersi sulla reale benevolenza del regime:
l’ambasciatore americano all’Onu Khalilzad, infatti, ha ricordato a tutti che
Suu Kyi “deve essere messa in condizione di potersi consultare e
incontrare con i membri del suo partito”, oltre a intrattenere frequenti
colloqui con il governo sull’auspicabile transizione democratica. “Queste
condizioni qui non ci sono”, ha chiuso l’ambasciatore. Il giorno prima
dell’incontro, inoltre, l’inviato della Farnesina Ugo Papi aveva cercato di
avvicinarsi alla casa della donna: a fermarlo, filo spinato e imponente
spiegamento di forze militari.
Il regime birmano, comunque, sa bene di
dover concedere qualcosa: perlomeno in apparenza, come ha fatto con la leader
dell’opposizione. I movimenti del governo continuano ad essere monitorati
dall’Onu: stando alle ultime notizie, Gambari dovrebbe fare ritorno nel paese
nella prima settimana di novembre. Dopo di lui, sbarcherà a Rangoon anche
Sergio Pinheiro, relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ma da quando
ha lasciato la Birmania, dopo la sua prima visita, l’ex ministro degli Esteri
nigeriano non è certo stato con le mani in mano: Gambari si trova tuttora in
giro per i paesi asiatici, a caccia di sostegno per misure più efficaci contro
la dittatura birmana.
Il tour asiatico di Gambari ha preso il
via dalla Malaysia: dopo Kuala Lumpur, il viaggio prevedeva tappe in
Thailandia, Indonesia, India, Cina e Giappone. Tappa fondamentale era
evidentemente quella di Pechino, dove giovedì l’inviato delle Nazioni Unite ha
parlato personalmente con il viceministro degli Esteri Wang Yi. Yi ha
assicurato a Gambari che “la Cina continuerà a dare il supporto necessario
alla mediazione dell’Onu”, auspicando che vertici militari e partiti
d’opposizione possano giungere ad una soluzione pacifica “attraverso il
dialogo”. Parole al vento? Certo: nello stesso istante, ma in un’altra
città (ad Harbin), i ministri degli Esteri di Cina, Russia e India hanno
ribadito la ferma opposizione a qualsiasi tipo di sanzione contro il regime di
Than Shwe. Il russo Lavrov, intervistato dal “China Daily”, ha
motivato la presa di posizione comune sottolineando che “le pressioni sul
paese non faranno altro che aggravare la situazione e provocare una nuova
crisi”. Dunque, o si dialoga (ma il regime non ne ha la minima intenzione)
o tutto resta come prima.
Unici paesi a continuare imperterriti
sulla via delle sanzioni sono Stati Uniti e Australia. Il presidente americano,
George W. Bush, ha annunciato la scorsa settimana un ulteriore inasprimento
delle misure, richiamando poi all’ordine Cina e Russia. Sul fronte australiano,
invece, la Reserve Bank of Australia (RBA) ha deciso mercoledì di imporre
sanzioni fiscali contro 418 generali militari e le loro famiglie: ogni
movimento monetario dovrà ora essere approvato dalla banca stessa.
Infine, la repressione. Dopo giorni di
relativa calma, in molti hanno segnalato ieri un deciso incremento delle forze
di polizia per le strade: il timore è che, terminata la quaresima buddista, i
monaci decidano di riprendere la protesta. Un giornalista della Reuters, al
quale è stato impedito di scattare fotografie, ha parlato di assembramenti
militari intorno alle pagode di Sule e Shwedagon, epicentro delle proteste di
agosto e settembre. Rotoli di filo spinato sono già pronti per chiudere
eventualmente le strade. Ma accuse ben più inquietanti sono recentemente
piovute sulla giunta. Se “Human Rights Watch” richiama l’attenzione
sulle condizioni disperate in cui si trovano le minoranze etniche birmane e gli
attivisti denunciano imperterriti gli arresti indiscriminati, l’Onu ha invece
lanciato ufficialmente l’allarme fame: cinque milioni di persone non hanno abbastanza
cibo per sopravvivere.
E mentre il governo arruola finti monaci
che si dimostrino benevolenti nei confronti del governo e dei suoi omaggi, il
quotidiano inglese “Independent” ha citato una fonte diplomatica
britannica sotto anonimato secondo la quale la Birmania è ormai “terra di
prigionia”, con raid notturni, processi sommari e veri e propri
“campi di nuova vita”, molto simili ai “centri di
rieducazione” istituiti da Pol Pot in Cambogia. Secondo il funzionario britannico,
altre proteste sulla scia di quelle di settembre sono improbabili anche se la
popolazione “è determinata a dare prova della sua resistenza”.
Gli ultimi numeri della repressione,
forniti da Tate Naing della Assistance Association of Political Prisoners ,
parlano di oltre 4000 arresti da parte della giunta (tra monaci, attivisti e
persone comuni) da quando la repressione ha preso il via; almeno 700 persone
sarebbero ancora dietro le sbarre. Secondo il governo birmano, invece, la
maggior parte degli arrestati sarebbe già in libertà e solo 190 persone
sarebbero ancora sotto custodia.