A noi ci piace Haftar, in Libia Boris prova a metterci una pezza e l’Italia si accoda
12 Maggio 2017
Lo Spectator ha ospitato un lungo articolo di Boris Johnson, l’uomo di Brexit e attuale segretario di Stato per gli Affari Esteri e del Commonwealth del Governo May. Sulle pagine del giornale di cui era redattore, Johnson racconta del suo viaggio in Libia. Del campo di migranti a Tripoli, della disperazione che ha visto nei loro volti, del desiderio che hanno di tornare a casa. Racconta dei 1500 euro spesi da questi disperati inseguendo il sogno di raggiungere l’Inghilterra. E poi dell’applauso che gli hanno dedicato quando ha detto loro di essere il ministro degli Esteri inglese, “è grazie agli investimenti del Regno Unito che questo centro sembra vagamente igienico”, ha spiegato Johnson che però un mea culpa sulla scellerata guerra di Libia del 2011 voluta proprio dal governo del suo predecessore, da Londra e da Parigi, avrebbe anche potuto farlo.
Per 42 anni i libici sono stati sotto il tallone di Gheddafi, che avrà pure avuto una politica a volte assassina, altre vile o semplicemente ridicola, ma che è stato capace di tenere insieme il Paese. Dal 2011 quell’autorità che fungeva da baricentro è scomparsa e adesso a quanto pare anche gli inglesi vorrebbero metterci una pezza. La guerra del 2011, ennesimo flop delle primavere obamiane, ha disgregato la Libia, un conflitto fra tribù, milizie e con la gradita partecipazione dello Stato islamico, che, dopo la chiusura turca del “corridoio balcanico” ha riversato il flusso dei migranti, e speriamo solo loro, verso Lampedusa.
Al momento in Libia da una parte c’è il primo ministro Sarraj – l’autorità riconosciuta, se così si può dire, dalla comunità internazionale – dall’altro il generale Haftar, sostenuto dall’Egitto e non solo. La settimana scorsa tra i due, Sarraj e Haftar, c’è stato un incontro. Si è parlato delle prossime tappe per cercare di ridare un minimo di sicurezza alla Libia, punto di partenza lo scioglimento di tutte le milizie alternative all’esercito del governo riconosciuto di Tripoli. Ma si è parlato anche di elezioni generali nel marzo del 2018. Intesa ambiziosa quella tra Sarraj e Haftar? Staremo a vedere. Sta di fatto che l’inglese Boris ha raccontato di aver pranzato con entrambi, perché il senso del suo viaggio era molto semplice: aiutare gli africani a casa loro. Anche Londra, nonostante Brexit, ora capisce che il caos post “arab spring” non è nei suoi interessi.
Il Guardian ha prima pubblicato online e poi modificato un articolo sulla questione libica, puntualizzando che Johnson, in realtà, non ha incontrato Haftar durante il suo viaggio. Russia Today invece rilancia e racconta di un meeting segreto tra Boris e il Generalissimo. Non è solo una scaramuccia tra grandi testate giornalistiche. Tutt’altro. Il generale Haftar sembra veder salire da settimane le sue quotazioni in Libia, sostenuto, come abbiamo detto, dall’Egitto, gradito a Washington e tutto sommato anche a Mosca. Che fa l’Italia dei Renzi e di Gentiloni in questo gioco? Che ruolo sta avendo il nostro Paese nella spartizione della torta libica? Dopo aver fatto da principali sponsor del governo Sarraj, ora i nostri governanti pare abbiano deciso di sdoganare il generale amico di Al Sisi e degli Usa di Trump. La missione lampo di Alfano è un tentativo fuori tempo massimo di recuperare il terrenno perduto, dopo che per anni chi siede in questo governo e ha avuto incarichi di rilievo nel precedente si è completamente appiattito sulla fallimentare strategia di politica estera obamiana.
Dunque l’Italia prima ha scommesso sul governo zoppo di Sarraj, poi ha inasprito le sue relazioni con l’Egitto, richiamando l’ambasciatore italiano al Cairo dopo il caso Regeni (e ancora non è arrivato il nuovo) e adesso cambia cavallo o cerca di tenere i piedi in due staffe. A seguire le evoluzioni della politica estera italiana targata Renzi-Gentiloni-Alfano viene quasi nostalgia della Prima Repubblica, quando avevamo governi che nel Mediterraneo avranno anche commesso degli errori, ma erano giganti rispetto a chi, oggi, in Libia, non sa più che pesci pigliare.