Con la scusa delle fake news, stampa e politica mettono il bavaglio al web
09 Febbraio 2017
Adesso abbiamo anche le poliziotte del pensiero unico. Oltre alla Clinton, che spera ancora di spacciare come falsità internettiane le mail rese pubbliche da WikiLeaks, abbiamo anche un paio di poliziotte de noantri, Boldrini e Maggioni, che ieri hanno di nuovo agitato il manganello contro le fake news. Non le bufale da quattro soldi che ormai riconoscerebbe anche un bambino, Papa Francesco che fa endorsement per Trump o il complotto neocon dietro l’11 settembre, bensì le “verità alternative” come le chiamano nel team Trump, molto più pericolose perché, appunto, alternative a quella propinata da media e giornaloni che pensano di avere ancora il potere di decidere da soli cosa è notizia e cosa no.
In un editoriale apparso sul quotidiano La Stampa, la candidata sconfitta alle elezioni Usa, Hillary Clinton, quella che pagava orde di troll per coltivare la sua web reputation, la sua immagine macchiata dai troppi scandali rivelati da WikiLeaks, ha messo in guardia dalla “epidemia di false notizie malevole e di falsa propaganda che negli ultimi anni è dilagata sui social media”. Pensava forse ai gruppetti cinghia di trasmissione del partito democratico, scoperti con le mani nel sacco a istruire e infiltrare poveri squilibrati nei comizi di Trump, ordinandogli di scatenare il caos per poi far titolare ai giornaloni “Ma quanto sono violenti i trumpisti”?!
Il presidente della Camera, Boldrini, che nei giorni scorsi ha lanciato l’appello online “Basta bufale”, subito sottoscritto dalla gilda del mondo dello spettacolo, da Fiorello a Verdone a Morandi, ha invece annunciato ritorsioni economiche, sanzioni non contro Putin ma contro le imprese che fanno pubblicità sui siti presunti spacciatori di bufale – “rendendo illegali le pubblicità per chi pubblica notizie false” fanno sapere da Agcom. Il presidente della Rai Maggioni, infine, ha volato più in alto, spiegando che “essere servizio pubblico significa avere un grado di affidabilità, di accountability,” minchia, l’accountability, “per cui uno sa che nel servizio pubblico ci sono persone che hanno il dovere di rispondere ai cittadini che pagano il canone e hanno il diritto di sapere veramente cosa succede”.
Non risulta però che in Rai o nei media italiani qualcuno si sia degnato di fare come il New York Times, la bibbia del giornalismo mondiale, costretto pubblicamente a chiedere scusa ai suoi lettori per aver fatto un endorsement troppo sfacciato per la sconfitta Hillary. Non ricordiamo pubbliche scuse del servizio pubblico sul compatto sostegno a Renzi durante il suo governo, e nemmeno qualche imbarazzo per i flop inanellati uno dopo l’altro, vincerà Remain e ha vinto Brexit, basta un Sì e ha vinto il No, Hillary la trionferà e invece gli americani, divenuti a quanto pare e di colpo una manica di razzistoni, hanno votato per Trump. Insomma è sempre più evidente come establishment e media mainstream siano in difficoltà davanti all’altro fact-checking, alla verifica delle notizie fatta da blog, giornali online di controinformazione, e da semplici utenti che hanno imparato a usare i social media sovvertendo l’ordine della informazione costituita.
Potremmo aggiungere all’elenco delle poliziotte del pensiero unico anche la senatrice Adele Gambaro (Ala-Scelta Civica), che ha presentato al parlamento europeo un lungo rapporto sul giornalismo online: la Ue, dopo la dimensione dei cetrioli, si prepara a regolamentare le notizie su Internet, anche se non si è ancora capito bene chi controllerà i controllori di fake news. Del resto come dimenticare le bubbole spacciate in campagna elettorale dalla CNN, i siti democratici pieni di panzane sui “razzisti antisemiti” sbarcati alla Casa Bianca, o la lista di proscrizione redatta dalla professoressa Melissa Zimdars, costretta poi a spubblicare l’elenco della vergogna da Internet dopo che il popolo del web le si era praticamente rivoltato contro?
Ecco, il vecchio potere scricchiola e cerca disperatamente di conservare il controllo della informazione, disposto anche a venire a patti con i padroni del web, le grandi corporation che hanno passato anni a “profilarci” per gusti, usi e consumi, e che adesso invece la politica chiama a raccolta per difendere la libertà giornalistica e la oggettività dei grandi media, un’altra patacca a cui ormai non crede più nessuno. Il potere reagisce e il rischio adesso diventa un altro, che dai social network ai motori di ricerca qualcuno dei potenti di turno tenti di tapparci la bocca. Del resto del sistema non c’è più da fidarsi, come ha detto il regista Oliver Stone i veri spacciatori di bufale sono spesso quelli che le denunciano.