Se il “modello svizzero” diventa una via d’uscita per una Ue in crisi nera

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Se il “modello svizzero” diventa una via d’uscita per una Ue in crisi nera

Se il “modello svizzero” diventa una via d’uscita per una Ue in crisi nera

16 Novembre 2018

Francocentrismo. O Euroccitrentismo. Potrebbero essere questi dei neologismi utili per identificare quel fondamento che sta alla base di quel principio espresso da uno degli alfieri di certa Ue, l’Unione europea, come il presidente francese, Emmanuel Macron, quando, nei giorni scorsi, di fronte al presidente americano Trump, ha condannato il nazionalismo in quanto «opposto del patriottismo». Una dichiarazione poi sottoscritta, a cascata, da quasi tutti i leader di una parte dell’Europa, quella occidentale.

Già, poiché, a sua volta, se l’Europa è considerata uno degli Occidenti del mondo (anche l’America del Nord, e, per alcuni versi, il Giappone, rientrano in questa dimensione geografico-spirituale), va detto che anche l’Europa ha il suo occidente. Una demarcazione oggi ancora più evidente, grazie ad un particolare attivismo e ad una ritornata visibilità dei quattro paesi di Visegrad: Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria. Una frattura, quella della diade tra nazionalismo e patriottismo, sentenziata dal presidente francese, che non solo ha sottolineato il distacco senza precedenti tra Europa e America, ma che acuirà ancora di più il solco tra l’establishment mondializzato rappresentato dalle istituzioni europee e i popoli europei (sì, popoli europei). Una “gentrificazione” del pensiero, in cui si opta per una radicale sostituzione di un idem sentire collettivo e circoscritto territorialmente, le nazioni, con uno sconfinato internazionalismo senza radici.

Ma la patria non è mai senza confini e se non si comprendono le ragioni del nazionalismo – una forza determinante negli affari globali che i leader mondiali dovrebbero rispettare – l’incapacità di apprezzare il ruolo del nazionalismo, da parte del presidente francese, esprime la mancanza di immaginazione che è la causa di molti guai europei. Alla base di questo pensiero, nell’Ue, c’è la convinzione storica, incarnata oggi dai vari Macron di turno, che l’Europa occidentale sia la vera Europa e che la sua storia abbia un valore universale anche sull’ “altra Europa”. Un “Euroccitrentismo”, chiamiamolo cosi, così radicato tra le élites di quella zona del continente, che per Freud sarebbe quella parte nascosta dell’iceberg: l’inconscio, in questo caso del continente. Invece, altri popoli hanno tratto lezioni diverse dalla storia, molto diverse da quell’illuminismo, che, per molti rispetti, ha oscurato le coscienze d’Europa.

Quelli dell’Europa centrale e orientale, per esempio, hanno imparato il valore, non i pericoli, del nazionalismo, che li ha liberati due volte da sistemi imperiali burocratici e multietnici, come quello sovietico e absburgico. Per polacchi, cechi, lituani e molti altri, la causa del nazionalismo è stata la causa della libertà, e quando hanno aderito a Ue e Nato l’hanno fatto per preservare la loro indipendenza nazionale, non certo per rinunciarvi. Ora, il post-nazionalismo è una fantasia di una parte dell’occidente, di quell’area progressista e “ultraterrena”, disancorata da ogni “nomos”, ma non è un mainstream culturale e politico globale di tendenza, visto che Paesi come Cina, Russia, India, Pakistan, Vietnam, Turchia, Brasile e molti altri sono nazionalisti come la Francia nel 1910, e con un nazionalismo che sta creando una nuova realtà che mette a rischio la sicurezza americana ed europea. L’Ue, se vuole essere tale, unione, e non un Leviatano sovranazionale che oltrepassa le identità, giunto ad uno spaseamento ormai distante anche ogni calcolo algoritmico, forse più che ad un universalismo astratto, dovrà fare riferimento ad un diverso modello, più confacente alle diverse caratteristiche storiche e politiche di ciascun paese. Il prototipo è in casa e forse sarebbe quello di una grande Svizzera.