Sturzo, il liberale avversario delle «trombette» progressiste
18 Gennaio 2019
di Vito de Luca
La voce del senso comune, la credenza che l’uomo della strada manifesta nelle espressioni correnti del suo linguaggio. Anzi, «Io non invoco l’anima che si è formata nelle scuole, esercitata nelle biblioteche e gonfiata nella sapienza delle accademie e dei Portici di Grecia. Io invoco l’anima semplice, rude, incolta e primitiva, quale posseggono coloro che essa sola posseggono, l’anima che si incontra nei crocicchi e nei trivi». Possono avere ancora un’attualità, queste parole di uno dei più importanti esponenti della prima patristica, Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, oggi che, nel celebrare i cento anni della nascita del Partito polare di Luigi Sturo, inevitabilmente si ripropongono le ragioni di un impegno cattolico e cristiano in politica, inabissatosi a partire dall’inizio della cosiddetta seconda Repubblica? E se sì, con quale collocazione? Se le parole di Tertulliano, avvocato che si convertì al cristianesimo, tra il 193 e il 197 dopo Cristo, per poi diventare successivamente sacerdote, appaiono di un populismo ante litteram – ma con un senso profondo di vicinanza a ciò che oggi definiamo genericamente “gente” – certamente appare inequivocabile quale dovrebbe essere oggi l’appartenenza di un cattolico in politica.
In un articolo che apparve, ad esempio, sul Giornale d’Italia, il 7 luglio del 1958, Sturzo si scagliò contro quelle che egli definì le «trombette» delle allora correnti sociali della Democrazia cristiana, le quali, scrive sempre Sturzo, «vanno per vicoletti ciechi a svegliare i compagni di oggi, a tentare quelli sperati per il domani». Un «trombette» che oggi Sturzo rivolgerebbe a quel progressismo elitario mondializzato, lontano dal sentire comune, pur senza abbandonare quella vocazione europeista tipica del sacerdote siciliano. Un’apertura continentale, quella di Sturzo, la quale però è sempre stata bilanciata dal richiamo ad una seria ed onesta politica municipale, fondata sul Comune come «ente concreto», nel quale rendere operante il rapporto diretto fra i cittadini e gli amministratori: un dialogo costruttivo che per Sturzo rappresentava un’autentica scuola di democrazia. Dunque, se un rinnovato impegno dei cattolici in politica oggi si rende necessario, come erede di un popolarismo liberale di stampo sturziano, questo non si dovrebbe distaccare da un rilancio di una maggiore partecipazione popolare alla cosa pubblica, senza per questo fare le viste ad una democrazia continua di stampo pentastellato, ma proponendo una nuova alleanza tra i vertici e quella che Sturzo definiva partecipazione «dal basso», anche decentralizzando un potere centrale governativo, oggi più forte di ieri, dopo la fallita stagione della “devolution” territoriale.
Un antipopulismo antirisorgimentale, quello di Sturzo, critico verso lo Stato «unitario», che, nell’epoca che scorre, alle «trombette» delle correnti sociali della scomparsa Dc, oggi traducibile nell’establishment filo-globalizzante, concederebbe solo una delle sue ultime proposte: quella di un’«Eurafrica». Ovvero,una possibile confederazione, o almeno collaborazione, fra la comunità europea di un tempo (oggi divenuta Ue), e i paesi africani del bacino del mar Mediterraneo. Un concetto, oggi, non interpretabile né in chiave sovranista, né in un’ottica di un’apertura indiscriminata dei confini nazionali. Ma, probabilmente, soltanto in quella di un buon senso.