Unità d’Italia, quella festa poco sentita (e poco riuscita)
17 Marzo 2019
Il 17 marzo si celebra con una festività nazionale l’anniversario dell’Unità d’Italia, ossia della proclamazione del Regno d’Italia avvenuta il 17 marzo 1861. Ma è una festa che passa quasi inosservata e, tra i pochi che la ricordano, una fetta consistente la confonde con la Festa del Tricolore, in cui si commemora l’adozione del tricolore da parte della Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797.
Tanto per cominciare, la data del 17 marzo si presenta un po’ maluccio: è il giorno in cui Vittorio Emanuele II di Sardegna divenne Re d’Italia. Attenzione: secondo. In questi casi, con la nascita di un’entità statuale nuova, si dovrebbe ricominciare da uno, e nella storia non mancano esempi: aver conservato la numerazione del Regno di Sardegna “fa tanto annessione”, se non altro sul piano simbolico, che non è mai da sottovalutare. E di annessione forzata parlano i meridionali, di forzata laicizzazione parlano i cattolici, di unificazione centralista parlano i federalisti. Insomma, l’unità nazionale appare a molti come un’operazione fatta dall’alto, in contrasto con l’identità profonda della nazione italiana, caratterizzata dalla pluralità delle storie municipali e regionali e dal radicamento nella tradizione cristiano-cattolica. Se confrontiamo la situazione attuale col 1961, quando si celebrò il centenario dell’unità in un clima sostanzialmente unanimistico, il minimo che possiamo notare è che queste riserve oggi hanno una circolazione molto più forte, e che non c’è quasi nessuno che non le consideri in tutto o in parte ragionevoli.
La sottolineatura del carattere poco popolare del Risorgimento d’altronde fa parte anche di una consolidata lettura di sinistra della storia italiana, come pure da tempo è stata evidenziata la brutalità della repressione piemontese nella “conquista del Sud”, fino a diventare praticamente un luogo comune della narrazione diffusa nel Meridione. Sono largamente conosciute anche alcune delle più consistenti doléances, come l’introduzione della coscrizione obbligatoria, l’impoverimento ulteriore dei ceti contadini – non solo al Sud, ma anche in vaste aree del Centro e del Nord- e il massiccio ricorso all’emigrazione come uscita dalla grave crisi sociale.
D’altra parte l’unità nazionale d’Italia, anche se dal punto di vista statuale è stata conseguita solo nel 1861, non è certo un’invenzione della retorica risorgimentale: ha radici lontane e, andando oltre l’insuperata consapevolezza dantesca, la si potrebbe far risalire fino alla riforma di Augusto, e alla contestuale organizzazione delle regiones, con la loro stupefacente persistenza nel tempo. A questo proposito è stato osservato come l’Italia sia l’unica nazione europea che ha un “battesimo” precedente al Medioevo. Perciò non si dovrebbe accettare superficialmente la negazione dell’unità in nome dei difetti con cui l’unità politica è stata realizzata. Piuttosto è necessario insistere sulla riformulazione del patto fondativo nazionale, valorizzando le identità trascurate e inserendo definitivamente le pluralità storiche e territoriali nella “narrazione” unitaria della nazione italiana. I processi di allargamento dell’autonomia regionale in atto, opportunamente governati e bilanciati, possono essere un’occasione da non sprecare, se si ha a cuore la “lunga durata” dell’idea di Italia. In questo contesto la proposta della macro-regione meridionale, lanciata da Caldoro, Quagliariello e Sansoni, non solo è di pressante attualità, ma anche di profonda lungimiranza.
C’è da dire che le prospettive autonomistiche proprie del patrimonio tradizionale della Lega e quelle “comunitarie” care ad ampi settori delle destre tradizionali, anche di matrice cattolica, in più di un osservatore suscitano riserve: in primo luogo quelle frutto di una visione risorgimentalista e nazionale, legate alla preoccupazione per la disintegrazione dell’unità. Ma poi, si obietta ancora, per un verso l’enfasi sull’identità territoriale può virare verso la negazione del concetto romano di cittadinanza, mettendo in primo piano una visione legata al “sangue”; per un altro l’enfasi sulla composizione comunitaria della società (corpi sociali intermedi più che individui) può lasciare in ombra la concezione prevalente nelle costituzioni moderne, che tutelano le libertà individuali di pensiero, di comportamento, di opzione religiosa e politica. Anche un conservatore di rango come Scruton ha evidenziato questi punti critici, sottolineando la differenza tra appartenenza ad una nazione con la cittadinanza, e appartenenza per fede o per sangue ad altre – legittime- tipologie di società. La scommessa di un centrodestra di governo sarebbe nella capacità di armonizzare la prospettiva identitaria e comunitaria con la tenuta dell’unità nazionale e con le acquisizioni irrinunciabili della società liberale, basata sull’individuo e sull’habeas corpus: anche da questo dipende la possibilità di successo di un progetto politico-culturale di ampio respiro.
Certamente l’unità politica e culturale d’Italia si può e si deve festeggiare, ma con la giusta consapevolezza che è necessario affrontare con coraggio le vecchie piaghe: prima tra tutte quella della crescente arretratezza del Sud, che pone una seria ipoteca sulla possibilità di continuare a essere una nazione. Da questo destino avverso non ci salverà certo la retorica patriottica, ma neppure quella vittimistica.