Il Sud, lo status quo e la Macroregione
18 Marzo 2019
Le autonomie regionali hanno conquistato nelle ultime settimane la scena del dibattito politico: sebbene si tratti di un tema divisivo per la maggioranza, difficilmente potrà essere accantonato. Soprattutto il governatore veneto Luca Zaia non sembra disponibile a mollare la presa, consapevole che per i suoi elettori si tratta di un percorso irrinunciabile.
L’avocazione alle Regioni di maggiori competenze è da sempre una bandiera leghista: potremmo dire che l’”autonomia” è il cuore della Questione Settentrionale da cui nasce la Seconda Repubblica.
L’esito di questa vicenda però non è scontato: voci autorevoli si levano contro il “regionalismo differenziato” e vari ambienti sociali e politici sono pronti ad opporsi. La melina dei Cinque Stelle sulla questione è sintomatica. Il ragionamento degli oppositori è semplice: si rischia di uccidere il Mezzogiorno e aumentare il divario Nord–Sud. Che veneti, lombardi, ma anche emiliani, rivendichino l’autonomia per avere una maggiore gestione del proprio gettito fiscale è inoppugnabile e se contano di avere più soldi è chiaro che queste risorse verranno tolte ad altri… ma la difesa dello status quo è davvero ciò di cui il Meridione ha bisogno?
La critica al “regionalismo differenziato” in nome della “difesa delle ragioni del Sud” sembra quanto meno strumentale. Tutti i dati disponibili ci raccontano, infatti, di un Mezzogiorno che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire drasticamente (e, considerata la crisi, in misura decisamente superiore al Nord) le risorse pubbliche disponibili, in particolare per gli investimenti; aumentare, più che nelle Regioni settentrionali, la pressione fiscale; esplodere la disoccupazione, soprattutto giovanile, con ricadute pesanti sia sulla natalità, sia sul saldo migratorio, con centinaia di migliaia di ragazzi in fuga dalla loro terra in cerca di lavoro; verificarsi la desertificazione del tessuto industriale; emergere un quadro macroeconomico per certi aspetti più drammatico di quello della Grecia; colare a picco la credibilità delle proprie classi dirigenti.
Se il quadro è questo, non si capisce cosa il Sud debba difendere, arroccandosi su posizioni di retroguardia. Piuttosto, dovrebbe raccogliere la sfida e rilanciare, ponendo sul tavolo dell’autonomia il proprio punto di vista.
Nella misura in cui responsabilizza il territorio e chi la amministra, l’autonomia è un fatto positivo. Ma è la Regione l’ente locale più adatto a pretendere un’avocazione di competenze?
Molti analisti ritengono che il regionalismo italiano, nato nel 1970, non abbia dato buona prova di sé: da ente di programmazione, le Regioni sono diventate centrali di spesa e, in particolare dopo la riforma del Titolo V, quasi piccoli staterelli in perenne contenzioso con lo Stato centrale e produttori di ogni genere di sprechi, per di più sprovvisti di quella effettiva prossimità ai bisogni dei cittadini, alla base della filosofia del decentramento.
Nel Meridione soprattutto le cose sono andate effettivamente così. Eppure è evidente che i cittadini del Nord non condividono questo giudizio e, presumibilmente, con ottime ragioni.
Nessuno però si è chiesto se il modo in cui i confini regionali sono stati disegnati fosse adeguato alle esigenze sociali ed economiche dei territori e, perché no?, alla loro Storia. Ecco, anche questa potrebbe essere una chiave di lettura: mentre le Regioni del Nord riproducono abbastanza fedelmente le compagini politiche pre–unitarie e la loro omogeneità culturale, al Sud esse sono state disegnate a tavolino: la Puglia, per esempio, non è mai esistita (semmai le Puglie) e lo stesso potrebbe dirsi della Calabria. Il Mezzogiorno è stato per oltre sei secoli una compagine unitaria e il livello amministrativo più coerente con il suo retaggio storico sono le province.
Anche da questa constatazione parte l’iniziativa del Comitato promotore del Referendum consultivo per l’istituzione della Macroregione autonoma del Sud, che ha avviato la procedura referendaria in Campania, in attesa di procedere anche nelle altre Regioni, e che si pone l’obbiettivo, attraverso il combinato disposto degli articoli 116 (quello relativo all’autonomia) e 117 (attinente alla cooperazione interregionale) della Costituzione, di cominciare a dare forma alla Macroregione Meridionale, finalmente libera dai carrozzoni regionali e con le province reintegrate nel proprio ruolo, in attesa di una complessiva riforma costituzionale.
Una prospettiva che vuole riempire l’autonomia di contenuti adatti al Sud: a cominciare dalle competenze avocabili che nel Mezzogiorno possono dare risultati solo se esso si presenta unito. Basta con lo storytelling dei molti Sud che ha contribuito a parcellizzare gli interventi. Settori come trasporti, infrastrutture, sanità, investimenti vedono le regioni meridionali fortemente interdipendenti.
Non solo: l’autonomia per il Sud ha senso soltanto creando un’Agenzia per lo sviluppo, centralizzata in un quadro macroregionale, che programmi un piano di investimenti, soprattutto infrastrutturali, ottimizzando le risorse ordinarie e quelle straordinarie dei fondi europei. A tal proposito diventa cruciale un negoziato forte con Bruxelles per la programmazione 2021–2027, su cui i segnali che arrivano lasciano temere una complessiva riduzione di risorse, che andrebbero invece implementate e corroborate dalla creazione di un’unica ZES (Zona Economica Speciale) corrispondente al territorio macroregionale.
Insomma è in Europa che si gioca, innanzitutto, il rilancio dell’economia del Sud, per non parlare delle disfunzioni che l’euro ha creato in questa parte d’Italia, condannata ad utilizzare una moneta tarata sul “pesante” marco tedesco, che ha penalizzato impresa e lavoro, avvantaggiando le rendite e annientando l’ascensore sociale. E lo strumento più adatto per avere peso ai tavoli europei non sono le Regioni autonome, ma al contrario proprio le Macroregioni.
Sta quindi ai cittadini meridionali raccogliere la sfida dell’autonomia, provando a riappropriarsi del proprio destino, senza farsi dettare l’agenda. Nella consapevolezza che se la cosiddetta II Repubblica è nata con la Questione Settentrionale, la Terza potrà sorgere soltanto se saprà farsi carico della nuova Questione Meridionale che l’attuale stato di cose, non solo non è in grado di affrontare, ma soprattutto ha largamente contribuito ad aggravare.
Tratto da Corriere Ecconomia – Corriere della Sera