Se l’Italia è (veramente) unita in cucina. La vicenda di Pellegrino Artusi
16 Maggio 2019
Pellegrino Artusi primeggia incontrastato nel Pantheon della cucina italiana, ma abbastanza ingiustamente non figura in quello dei padri della patria. Le strade e le piazze dedicate a lui si possono contare sulle dita di una mano, e sono praticamente tutte tra Forlì e Forlimpopoli, nella Romagna profonda dove nacque nel 1820.
Eppure Piero Camporesi ha scritto che ‘La scienza in cucina’ ha fatto per l’unificazione italiana più di quanto non siano riusciti a fare i ‘Promessi Sposi’”, ossia l’importante tentativo manzoniano di elaborare il modello per LA lingua italiana comune.
Intanto, bisogna partire da un dato di fatto: la storia della cucina italiana ha un termine ante quem e post quem, e questo termine è indubbiamente Artusi.
Ne ha parlato ampiamente Massimo Montanari, in un libro molto leggibile e snello, ‘L’identità italiana in cucina’ (Laterza, 2011).
Per gli stranieri, e anche per molti di noi, nell’immaginario della cucina italiana campeggiano dei simboli netti e inequivocabili: pomodoro, tortellini, spaghetti, lasagne… Poi siamo tutti affezionati a quelle regionali, e (last but not least) a quelle di casa e di mammà, di solito molto più differenziate o, almeno, reinterpretate: in realtà, come si può immaginare facilmente e come capita per molti altri aspetti che riguardano l’Italia, una vera e propria cucina italiana intesa come modello unitario non è mai esistita – questa è la tesi di Montanari – anche se fin dal Medioevo possiamo riconoscere uno “stile” comune italiano, frutto della conoscenza reciproca di prodotti e ricette provenienti da città diverse.
Storicamente l’Italia è prevalentemente una rete di città, e quindi quella italiana è soprattutto una cucina di varietà cittadine: i confronti maturano a partire dalle classi alte e presto cominciano a circolare i primi ricettari, da Mastro Martino a Ortensio Lando, fino alla grande ‘Opera’ di Bartolomeo Scappi (1570) che illustra e paragona la cucina di Milano, Genova, Bologna e Napoli. Interessantissimo ad esempio l’excursus sulle torte e sulle loro differenze (“i napoletani la chiamano pizza”): con lo Scappi siamo già di fronte a una specie di antologia della cucina italiana.
Si tratta di precedenti importanti, e sarebbe imperdonabile ignorarli, come del resto tutta una serie di elementi culturali e civili che appartengono al patrimonio nazionale italiano ben prima dell’unità statuale del 1861. Ma perché diciamo che il carattere della cucina italiana come oggi lo conosciamo è dovuto soprattutto all’Artusi?
Il ‘monumentum’ della cucina italiana vede la luce nel 1891, a unità conclusa e consolidata. Artusi è di formazione mazziniana, è molto versato nel campo della cucina e il suo scopo è far sì che la nazione abbia un repertorio culinario comune e che il popolo sia indirizzato verso un’alimentazione sana e razionale: un progetto che si inserisce nell’orizzonte ideologico del notissimo “facciamo gli italiani”, in sintesi una specie di prosecuzione del Risorgimento unitario con altri mezzi.
Il suo progetto di ricettario però non trova editori, e allora lo pubblica a sue spese, vendendolo per corrispondenza dalla sua casa di Firenze, dove nel frattempo è andato ad abitare. Il business ha successo, ma soprattutto accade un fatto notevole: molti suoi corrispondenti (per lo più lettrici) inviano suggerimenti, precisazioni, ricette: il testo cresce in modo interattivo, diremmo oggi. La prima edizione de ‘La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene’ raccoglie 475 ricette; nel 1909, alla 23a edizione, le ricette sono diventate 790. Alla fine, pur essendo il nucleo centrale frutto della tradizione emiliano-romagnola e toscana, l’opera recepisce elementi della cucina di tutta Italia. Paradossalmente il mazziniano Artusi realizza l’unità culinaria quasi alla maniera di Cattaneo, con un risultato che – senza forzare troppo – potremmo dire federale, e diviene un documento del carattere policentrico dell’identità e della storia italiana, anche nella cucina. Senza fornire una rigida codificazione nazionale, ma riuscendo a presentare in modo unitario la sua enorme varietà, l’opera di Pellegrino Artusi – che si spegne a Firenze nel 1911 – diventa per intere generazioni IL manuale principe della cucina italiana. E anche il simbolo dell’italianità in cucina, in Italia e all’estero.
Per questo, in una puntata di Radio Londra dedicata all’unità d’Italia, si meritò un divertito elogio di Giuliano Ferrara: di fronte ai sussiegosi e accigliati azionisti in perenne contestazione dell’Italia “paese da spaghetti alle vongole”, è di gran lunga preferibile l’Italia di Pellegrino Artusi, che “ha messo il pomodoro sugli spaghetti”.