La vera pandemia si chiama “globalizzazione”

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La vera pandemia si chiama “globalizzazione”

La vera pandemia si chiama “globalizzazione”

01 Luglio 2020

Fra i tanti libri che stanno uscendo dopo la pandemia, quello di Francesco Borgonovo è sicuramente uno dei più suggestivi (La malattia del mondo. In cerca della cura per il nostro tempo, UTET) Si tratta di una riflessione a tutto campo sullo stato attuale del mondo, i cui tratti essenziali il virus ha confermato e anzi reso ancora più chiari e accelerato. Borgonovo, che è uno dei più importanti giornalisti italiani (attualmente è vicedirettore de La Verità), scrive in modo chiaro, avvincente, e il volume si lascia leggere con facilità nonostante che egli sia costretto, dall’oggetto stesso, a mischiare fatti di cronaca (quella vissuta appunto in questi mesi) e riflessioni teoriche. Le quali ultime sono fatte di idee ben precise e organizzate, maturate nel corso della sua attività di questi anni ma verificate in questo libro con l’ausilio di filosofi, psicologi, esperti vari e riconosciuti, appositamente interrogati. E con riferimenti costanti alla grande letteratura e alla mitologia classica. Può quindi succedere che, nel mentre si parli del wetmark fatidico di Wuhan da cui si sarebbe originato il virus, si passi a teorizzare, sulle orme del Carl Schmitt de Il nomos della terra, di “potenze d’acqua” e “potenze di terra” che si contendono da sempre il dominio del mondo.

In verità, l’acqua è l’elemento attorno a cui Borgonovo fa girare un po’ tutta la narrazione: essa indica fluidità, instabilità, precarietà, incertezza. È cioè l’elemento dominante nel nostro mondo “malato”, non di coronavirus solamente ma di una malattia più profonda. Questa patologia si chiama globalizzazione, e vive dell’abbattimento di ogni confine o frontiera: fra gli Stati, fra le culture, fra le idee, fra i generi sessuali. È furia distruttrice e corrosiva di ogni limite, e cioè della tradizione, già individuata da Marx come propria del capitalismo (anche se egli preferiva, nota giustamente l’autore di questo libro, la metafora del gas rispetto a quella dell’acqua).

Essa ha raggiunto l’acme con il neoliberismo, che è un po’ il bersaglio principale di questo libro. Il “turbocapitalismo” ha compiuto, infatti, la più radicale delle operazioni: ha fatto credere ai tanti adepti delle culture minoritarie e delle “minoranze discriminate” di stare combattendo una battaglia di emancipazione e persino anticapitalistica, mentre, in realtà, l’ideologia del “politicamente corretto” è funzionale alle nuove logiche di un mercato diventato un assoluto. E che è disumanizzante nella misura in cui giudica tutto in termini di perdita o profitto. Il neocapitalismo vende anche le idee “rivoluzionarie” e critiche del vecchio ordine come prodotti. Esso ha anzi bisogno di idee che mettano in crisi i vecchi limiti e destrutturino realtà come la famiglia, la nazione, la religione, basate su un trasporto gratuito degli uomini e non commercializzabile.

Gli individui, sradicati e isolati, ridotti a semplice “materiale umano”, diventano così plasmabili e manipolabili: facili “prede” del potere pur credendosi liberi e unici (il narcisismo di massa è opportunamente solleticato). Si è conformisti sentendosi e credendo di essere anticonformisti: si è “ribelli” e non “rivoluzionari”. Borgonovo descrive in pagine riuscite e convincenti questa nuova dialettica del potere: che è in primo luogo economico ma si serve dei simboli e dell’immaginario, e perciò diventa estremamente pericoloso. Molto coinvolgenti sono le pagine sull’ambientalismo: tanto più critiche verso quella che è un’ideologia catastrofista di sapore gnostico, fatta propria da Greta ma anche dall’élite mondiale, quanto più l’autore ritieme e mostra come solo una rinnovata coscienza ecologica potrebbe farci uscire dalla crisi, cioè provare a guarire dalla “malattia del mondo”. Ritrovandogli appigli su cui poggiarsi, cioè un terreno solido, e riscoprendo l’idea del limite. Cioè, in poche parole, provando a mettere in scacco il potere talassocratico che ci avvolge e dirige. Occorre riscoprire l’idea del limite e combattere la dismisura, cioè quella hybris che ci ha portato a crederci i padroni dell’universo e a pensare che la natura, ma meglio sarebbe dire il creato, mai ci avrebbe presentato il conto. Il virus, che sia fuggito da un laboratorio o che sia figlio del forzato allontanamento dalle campagne proprio della rapida modernizzazione cinese, ci ha dimostrato il contrario.