La guerra di Putin come Nemesi (Parte II)
31 Marzo 2022
L’impatto della Guerra economica
Istèresi. I fisici chiamano così il fenomeno per cui un corpo, sottoposto a una pressione, mantiene una deformazione anche quando la tensione si allenta o termina. Il contrario dell’”Antifragilità” evocata da Taleb: “È antifragile quell’organizzazione che evolve e cresce dopo ogni crisi”. Per analogia, molti analisti hanno prospettato il rischio di una “isteresi sociale e politica” alla fine della Pandemia: si sono giustamente mostrati preoccupati per l’impiego disinvolto della narrativa bellica da parte dei governi per descrivere l’attuale emergenza. “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”, hanno detto due leader di temperamento e visione opposti come Donald Trump e Emmanuel Macron. La questione non è meramente linguistica. Di fronte all’estendersi rapido dei contagi, i vari esecutivi del mondo hanno adottato misure proprie di una situazione di conflitto, dalla chiusura allo schieramento dell’esercito. Va detto che la Pandemia ha avuto uno strano effetto politico perché è arrivata in un momento di infatuazione collettiva verso il populismo-sovranismo, considerato più efficace nella risoluzione dei problemi. Ma proprio l’inefficacia dell’approccio dei politici di questa estrazione – in particolare Trump (ma anche Bolsonaro e in qualche modo Johnson) – ne ha portato a una battuta d’arresto, sostituiti – per esempio in Italia (considerata in questo senso una sorta di laboratorio) da governi di unità nazionale o di matrice tecnocratica. Una sterilizzazione a cui – paradossalmente – la sfida putiniana potrebbe mettere fine. Facciamo nostre le valutazioni dell’analista strategico Francesco Marradi: “Il corpo principale dell’azione occidentale è giungere all’isolamento della Russia su tutti i piani delle relazioni internazionali, prima di tutto quelle commerciali e finanziarie. E se ciò invece fosse proprio l’obiettivo di Putin?” Siamo di fronte a una cintura nera di Judo, arte marziale dove “tu mi spingi, allora io ti tiro; tu mi tiri, allora io ti spingo”. Anatolij Rakhlin, suo insegnante sul tatami, ne ha così descritto lo stile: “Era molto bravo nel cambio di presa. Era difficile indovinare dove ti avrebbe scaraventato. Le sue mosse preferite erano la spazzata del piede e la proiezione sulla spalla”. Vediamo se lo scenario che stiamo ipotizzando può essere plausibile. Come sempre, il “fattore Tempo” (per dirla con Nolan, siamo in una “Guerra globale temporale”) è fondamentale. E qui è rappresentato dalla velocità di reazione dei mercati finanziari e di adattamento delle Supply Chain globali. Certamente, il primo effetto visibile delle sanzioni occidentali è l’esaurimento di ogni flusso commerciale e finanziario tra la Russia e l’Occidente. Sappiamo che gli USA sono pronti anche a sanzionare tutti gli Stati che non si adeguino prontamente. Cina e India (ovvero un terzo della popolazione del pianeta) non sembrano al momento disponibili, pur essendo consapevoli del rischio che corrono. In Africa, poi, Cina e Russia sono per ora ben posizionate. Le Petromonarchie arabe, per definizione non si schierano, specialmente contro chi – assieme a loro – controlla il mercato petrolifero. La Turchia continuerà a tenere tutti i piedi in tutte le staffe disponibili. L’effetto finale sarà la creazione di un circuito alternativo a Swift, la creazione di un’area finanziaria gravitante su Pechino, una clusterizzazione con ulteriore spostamento a Est delle Supply Chain, non dimenticando che il 51% della popolazione mondiale vive in un raggio di 4000 Km da Bangkok. Quindi, dobbiamo mettere sul tavolo l’ipotesi che le sanzioni creino una situazione rovesciata, ovvero che sia l’Occidente a isolarsi dal resto del mondo. Una volta stabilizzata la situazione dei flussi commerciali con la neo-clusterizzazione (ci vorrà qualche mese, e vediamo che in Ucraina si stanno scavando le trincee), i mercati finanziari reagiranno. Ma soprattutto, si innescherà la vera Guerra Nucleare: quella monetaria. Una volta disconnessi (più o meno totalmente) dal circuito occidentale e dotati di autonomia di circolazione di capitali e di mercato, Russia e, soprattutto, Cina inizieranno a convertire i dollari detenuti in oro. La Cina, alimenterà ulteriormente questo processo, che ritengo relativamente graduale, rilasciando le quote del debito USA che ha in pancia (una quantità molto significativa); titoli di debito che non sarebbero quindi rinnovati. La massa di USD rilasciata nel circuito finanziario non troverebbe più la globalizzazione disposta ad assorbirla e quindi si riverserebbe all’interno delle economie di Usa, Alleati e Associati. La conseguenza è semplice: inflazione a due cifre sostenuta, economia di cluster in ginocchio all’istante. I mercati finanziari reagirebbero anche in anticipo rispetto a questo scenario. Come suggerisce Giuseppe Gagliano – in “Guerra economica e intelligence” – questo tipo di conflitto ha in comune con la guerra nucleare proprio il fatto che fall-out radioattivo ricade addosso anche a chi la lancia e che la resilienza, la capacità di adattamento e il controllo del conflitto sociale sono fondamentali per reggere a questo blow-back, a questo ritorno di fiamma. In questo senso Putin punterebbe a far esplodere almeno 4 contraddizioni con cui dovremo fare i conti e che potrebbero portare alla crescita del consenso verso le forze sovraniste, antieuropeiste e – a parte FDI – (cripto) filoputiniane: 1) La crisi migratoria in atto ci pone alcuni problemi: perché gli Ucraini si e gli Afghani e i Siriani no? E per quanto tempo si agli Ucraini? Quando cominceranno a farsi risentire le formazioni anti-migranti? 2) Quanto impatterà l’aumento delle spese militari sul deficit e sulla contrazione del Welfare, soprattutto in un contesto post pandemico (va ricordato che il settore tecnologico – sotteso a quello bellico – funge da acceleratore dell’innovazione, il moltiplicatore keynesiano di questi investimenti si è praticamente asciugato – data la sua verticalizzazione – rispetto alle vecchie guerre industriali). 3) La doppia crisi energetica e ambientale genererà un poderoso impatto sulla Transizione ecologica. Le soluzioni prospettate non riusciranno a determinare – in tempi ragionevoli – né una vera indipendenza né un sostanziale calmieramento dei prezzi, e questo perché l’aliquota del gas americano – al netto dei costi e dei tempi di realizzazione delle necessarie infrastrutture – rappresenterà solo una parziale alternativa. Le cifre date da Biden (e rilanciate da Draghi) arrivano a far fronte solo a una frazione dell’attuale fabbisogno europeo coperto dagli approvvigionamenti russi e a prezzi sostanzialmente più elevati. Scongelare la posizione del Venezuela e quella ancor più problematica dell’Iran non sarà indolore e sono da monitorare le tensioni crescenti in Algeria, Libia e Azerbaijan. Tra l’altro, non solo i Brics rischiano di essere tutti dalla stessa parte ma anche tutti i produttori di fonti fossili di energia (si riproporrebbe più o meno lo schieramento della Cop24). 4) La Guerra potrebbe portare a una crisi alimentare con riverberi in tutti i Paesi dell’Africa, crisi che si congiungerebbe con quella migratoria evocata nel punto 1. Vie di uscita Alla Politica e ai loro esperti economici di riferimento incomberebbe il dovere deontologico, se non etico, di sorvegliare e prevenire queste dinamiche. In questo scenario, come ha sottolineato Paolo Rubino: “Ciò che colpisce di più è invece l’assenza fragorosa di analisi e opinioni sulle conseguenze di politica interna per le democrazie occidentali. La vera distinzione di valore contemporaneo è fra democrazie meramente formali e democrazie formali e sostanziali. In realtà l’esperienza della democrazia ‘formale e sostanziale’ è recente e breve nella Storia umana. Essa coincide con la costruzione sociale americana nel periodo tra la presidenza di Woodrow Wilson e quella di Franklin D. Roosevelt”. Sia in materia di affari interni, sia di relazioni internazionali, gli USA – tra la fine della Prima guerra mondiale e il trentennio successivo alla fine della Seconda – hanno costruito ed esportato una democrazia sostanziale sia pure in una parte limitata delle nazioni, quella dell’Occidente atlantico. Proprio perché Wilson, nel 1919, ha introdotto per la prima volta, nel regime delle relazioni tra Stati, la Società delle Nazioni, soggetto “legiferante” diverso e distinto dagli Stati, precedentemente unici soggetti dotati di potere “legislativo” in materia internazionale e Roosevelt ha introdotto, per la prima volta, nei regimi democratici formali, il valore della distribuzione della ricchezza tra classi sociali diverse, gli USA – nei vent’anni tra il 1919 e il 1939 – hanno, per la prima volta, sperimentato la democrazia sostanziale in modalità consustanziale a quella formale. La vittoria conseguita nel 1945 ha consentito agli eredi di Wilson e Roosevelt di esportare questo regime in Europa occidentale e Giappone. L’essenza della democrazia sostanziale è la rinuncia all’uso incondizionato della forza per imporre l’ordine interno e, ugualmente, l’ordine internazionale. Poiché l’aspirazione alla rinuncia dell’uso della forza non può semplicemente essere un wishful thinking, esso deve essere proceduralizzato, non idealisticamente abolito. L’ordine mondiale post bellico si è fondato sulla proliferazione delle organizzazioni internazionali con al vertice il Consiglio di sicurezza ONU dove, realisticamente, gli USA si sono riservati un potere di veto, condiviso con le altre nazioni vittoriose nel Conflitto mondiale. In materia di relazioni interne agli Stati, nell’Occidente atlantico e in Giappone, il diritto penale e le libertà civili, sociali ed economiche sono stati progressivamente orientati a tutelare i cittadini dall’uso indiscriminato della forza statuale. Poiché, tuttavia, la mera buona volontà, per quanto codificata dal diritto, non è sufficiente a regolare i naturali conflitti tra nazioni, in campo internazionale, e tra le classi sociali, in campo interno, la stretta regolamentazione dell’uso della forza, per essere realistica, deve essere accompagnata dalla tutela degli interessi di ogni parte. E gli interessi sono sempre riconducibili al benessere delle parti. La democrazia sostanziale, in campo interno, come in campo internazionale, è possibile se gli accaparramenti di quote di benessere degli Stati più forti e delle classi sociali più forti sono moderati dalla politica e ricomposti in misura più equa tra tutte le parti. Il nuovo modello americano – wilsoniano e rooseveltiano – ha consentito la vittoria nella Guerra fredda, la coesistenza regolata dall’ascensore sociale nelle democrazie occidentali. Purtroppo, la successiva gestione della vittoria nella Guerra fredda ha prodotto il paradosso dell’allontanamento dall’American way of life. Nel post Guerra fredda l’alterazione nella protezione degli interessi degli Stati e delle classi sociali ha lentamente riportato le relazioni internazionali e le relazioni sociali endostatuali, anche nell’Occidente atlantico, alla Belle époque pre 1914. Il rischio politico interno della crisi ucraina è che gli Stati UE, quelli del Commonwealth, il Giappone e, in definitiva, gli stessi Stati Uniti precipitino in un hollywoodiano “ritorno al futuro” dall’era di Franklin D. Roosevelt, della democrazia formale e sostanziale, a quella di Theodore Roosevelt della mera democrazia formale. Di questo rischio in Occidente non sembrano preoccuparsene davvero in molti. L’attuale crisi di quella che Giuseppe Sacco ha chiamato la “Globalizzazione gerarchizzata”, crisi fotografata anche dalla lettera agli investitori del CEO di BlackRock può aprire a due possibilità. Da una parte una lacerazione, più o meno estesa, del tessuto globale degli scambi, che verrebbero ricondotti in ambiti più ristretti, secondo quella che viene chiamata “globalizzazione – arcipelago”. Una soluzione che potremmo definire come una tendenza verso un sistema multipolare disordinato e conflittuale. Dall’altra, la fine del sistema unipolare potrebbe portare a una maggiore integrazione tra America ed Europa. Il modello potrebbe essere quello di una Nato allargata (che Carlo Pelanda ha ribattezzato Free Community Organization – Fco), con ulteriori partnership globali con Giappone, Australia, Nuova Zelanda, India e repubblica di Corea. Questo schema, in qualche modo, sembra riprendere quello auspicato in “The new Pentagon’s Map” dall’analista Thomas P.M. Barnett, che divide i Paesi del mondo in gruppi di appartenenza: il Functional core (il nucleo funzionale della globalizzazione: Usa, Gran Bretagna, Germania, Giappone e Francia) e il Gap (una “distanza” rispetto alla globalizzazione, un luogo nello spazio e nel tempo in cui la vita degli esseri umani è breve, dura e spietata: l’Iran, la Corea del Nord e tutta l’Africa). Tra questi due gruppi vi è una varietà di Seam States (Stati “saldatura” che però starebbero scivolando verso posizioni antiglobali). La differenza fondamentale tra la tesi di Barnett e la situazione attuale risiede nel fatto che per il primo l’onere di proteggere ed espandere il core continuerebbe a ricadere principalmente sull’aquila americana, in quanto l’Europa viene fatalmente percepita come vecchia, in declino, e di fatto ingessata dalla burocrazia di Bruxelles. Riprendendo le intuizioni di Carlo Pelanda, pur riconoscendo i limiti dell’attuale processo di integrazione europea, vista la crisi strutturale degli USA dopo la stagione interventista e la fine del momento unipolare, dobbiamo scommettere su “un’Europa che diventi estroversa, nel prossimo futuro, e grazie a questo possa dare l’impulso o, perfino, la scintilla di accensione che ora manca alla costruzione” di questa nuova architettura globale. Proprio per questo non ha nessun senso mettere sul banco degli imputati Angela Merkel per aver perseguito questo percorso, se la follia putiniana ha interrotto il tentativo di far progredire – tramite il libero commercio – i valori e le prassi democratiche non è detto che questo approccio debba essere definitivamente abbandonato. Anzi.Come ha affermato Claudio Landi (giornalista di Radio Radicale e fine conoscitore della “geopolitica” della Merkel alla cui traiettoria – per Passigli – ha dedicato un importante volume): “La storia darà ragione alla logica e al metodo geopolitico liberale della Cancelleria, al quale peraltro si e collegato lo stesso Olaf Sholtz a Monaco. In un mondo multiconnesso e multiconflittuale solo una formula alla Merkel può consentire di governarlo. Il resto è ‘aria fritta’ per dirla con un grande intellettuale liberal radicale italiano: i valori liberali possono progredire solo con l’interscambio commerciale e non”.