Per i serbi la scelta è tra Bruxelles e Mosca
22 Gennaio 2008
Il primo turno delle elezioni presidenziali in Serbia ha
viso la netta affermazione di due candidati che non rappresentano solo diversi
partiti e posizioni politiche, ma due strade radicalmente alternative per il
futuro del paese. Da un lato il presidente uscente Boris Tadic, liberale e capo
del Partito Democratico serbo, ha ottenuto il 35% dei voti, mentre dall’altro Tomislav Nikolic, segretario del
Partito radicale serbo erede del nazionalismo di Milosevic, ha avuto il 39% dei
consensi.
Tadic si
è presentato agli elettori ponendo come priorità l’integrazione della Serbia in
Europa, tanto sul piano economico, come unica via per migliorare una situazione
segnata da anni di guerre e di isolamento, che sul piano politico, come
ancoraggio democratico delle istituzioni serbe, all’insegna dello slogan “Per
una Serbia forte e stabile”. Tadic si è posto quindi come rappresentante di gran
parte della società serba che vuole avvicinarsi all’Occidente (secondo un
sondaggio riportato da Le Monde del 21 gennaio “due serbi su tre si dicono
favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea”). Nikolic si è invece presentato
come l’alfiere del nazionalismo serbo e il difensore dell’integrità
territoriale del paese, in particolare dei suoi diritti sulla provincia del
Kosovo. Posizione del tutto logica da parte dell’allievo ed erede del leader
ultranazionalista Sesely, oggi processato dal Tribunale dell’Aja per i crimini
contro l’umanità commessi nella guerra civile dei primi anni ‘90. L’importanza
della scelta è stata percepita dai 6,7 milioni di elettori, recatisi alle urne
in percentuale nettamente maggiore rispetto alle precedenti consultazioni.
Proprio
il Kosovo è diventato un tema centrale della campagna elettorale, nonostante
l’importanza che elettori e candidati hanno attribuito al tema dell’economia. A
dicembre del 2007, l’Unione Europea si era associata agli Stati Uniti nel
considerare esaurita la via del negoziato tra kosovari e serbi, dopo che
quest’ultimi avevano rifiutato il piano Athisaari per una “indipendenza
supervisionata” della provincia serba popolata da albanesi e governata dal 1999
dall’Onu. L’Ue ha ribadito inoltre il pieno appoggio al piano Athisaari e
deciso l’invio in Kosovo di una missione di 1.800 uomini nell’ambito della
Politica estera di sicurezza e difesa (Pesd), preparando di fatto la strada per
l’indipendenza supervisionata della regione. Tali sviluppi hanno ovviamente
urtato il sentimento nazionale serbo, diffuso ben oltre il (cospicuo)
elettorato dei radicali di Tadic, che considera il Kosovo come parte integrante
della Serbia e anzi come simbolo dell’identità nazionale perché storicamente
luogo delle grandi battaglie contro gli invasori ottomani. Di fronte alla cauta
ma decisa posizione europea, il governo di coalizione serbo ha infatti subito
ribadito la propria sovranità sulla regione e minacciato rappresaglie come il
blocco dei confini e delle forniture elettriche. La leadership moderata ha però
escluso l’uso della forza, e tutto sommato l’attuazione delle misure
prospettate non danneggerebbe troppo il Kosovo che ormai è integrato
maggiormente con Albania, Macedonia e Montenegro che con Belgrado.
Fortunatamente, le pressioni europee e americane hanno impedito al governo
kosovaro di procedere a una dichiarazione unilaterale di indipendenza prima
delle elezioni, cosa che avrebbe destabilizzato la Serbia con esiti
imprevedibili sia sulla politica serba che sui fragili equilibri regionali.
Un’ultima chiave di lettura della situazione serba è quella
internazionale. E’ opinione comune tra gli esperti del settore che i partiti
radicali serbi siano massicciamente finanziati dalla Russia. Ben ricordando la
proficua politica dei suoi predecessori sovietici con il Partito Comunista
Italiano, Putin sa bene che i rubli spesi per finanziare un partito
anti-occidentale in un paese fuori dalla propria sfera di influenza
costituiscono un ottimo investimento. Un governo radicale filo-russo, o
comunque una forte opposizione al governo filo-europeo influenzata da Mosca,
permetterebbe al Cremlino di guastare i piani di Europa e Stati Uniti per una definitiva
stabilizzazione della regione, che porterebbe, con l’ingresso dei paesi
balcanici nell’Ue e nella Nato, alla fine dell’influenza russa a ovest del
Danubio. Per Mosca l’influenza in Serbia costituisce, inoltre, una preziosa
moneta di scambio per i negoziati in corso su altri tavoli con l’Occidente,
dall’allargamento della Nato allo scudo anti-missilistico. Non a caso Le Figaro
titolava il suo articolo del 21 gennaio “La Serbia esita tra Bruxelles e
Mosca”.
Di fronte all’attivismo russo anche l’Europa ha le sua carte
da giocare, ma finora non lo ha fatto molto brillantemente. Se infatti è riuscita
con un colpo di reni a evitare un’escalation di tensione in Kosovo, ha però
bloccato temporaneamente l’Accordo di stabilizzazione e associazione con la
Serbia, premessa necessaria per il futuro status di paese candidato
all’ingresso: ciò ha frustrato le aspettative dei partiti filo-europei serbi e
urtato l’orgoglio nazionale dell’opinione pubblica. Di fronte all’atteggiamento
dell’Unione e al nazionalismo montante, anche Tadic ha dovuto prendere una
posizione dura per non perdere consenso, e ha (giustamente) affermato: “Noi
abbiamo bisogno dell’Ue, ma non a qualsiasi prezzo”. L’Europa sembra prendere
coscienza dell’importanza del suo ruolo in questo delicato momento per la
Serbia%2C se come riporta l’International Herald Tribune del 21 gennaio “il
ministro degli Esteri della Slovenia, che ha la presidenza di turno dell’Ue, ha
affermato che il miglior modo di evitare l’esplosione della situazione in
Kosovo è il rafforzamento dei legami economici e politici con la Serbia e la
prospettiva di un ingresso nell’Unione”. Sperando che il 4 febbraio non sia già
troppo tardi.